Supporto psicologico: come si accoglie un’emergenza umanitaria? 

Abbiamo intervistato Gandolfa Cascio, che ci ha spiegato come funziona la gestione di delle emergenze umanitarie, a partire da piccole azioni individuali di prevenzione, fino all’organizzazione di sinergie su larga scala per rispondere a una situazione internazionale di elevata tensione

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Emergenze umanitarie e bisogni psicologici complessi 

Se negli ultimi anni ci siamo abituati/e a vivere in uno stato di emergenza, certamente non avevamo in mente che, in prossimità dell’allentamento delle restrizioni per il Covid-19, si profilasse la dichiarazione di un altro stato di emergenza, totalmente differente. Si tratta dell’emergenza umanitaria e internazionale che ha fatto seguito all’invasione del territorio ucraino da parte della Russia. 

Ogni emergenza comporta l’insorgere di bisogni psicologici, sia specifici che aspecifici. Nel caso dei conflitti, e dei loro effetti devastanti sulla psiche, si parla di bisogni psicologici complessi. Ce ne parla Gandolfa Cascio, psicoterapeuta di Transiti con una lunga esperienza nell’ambito dell’emergenza.  

Cascio è dal 2013 socia e membro del direttivo dell’Associazione di volontariato di Protezione Civile Psicologi per i Popoli Regione Sicilia, con cui è intervenuta nelle emergenze umanitarie di diverso genere. Si è occupata, attraverso il lavoro con alcune ONG, soprattutto di supporto psicologico a minori stranieri non accompagnati e famiglie con bambini in arrivo via mare in Sicilia orientale. Una situazione di emergenza umanitaria rispetto alla quale gli operatori del settore accoglienza e migrazione del nostro paese hanno già risorse in campo ed expertise, poiché si sono trovati a gestire, in passato, grandi flussi migratori. 

Tuttavia la mobilità di persone in fuga dall’Ucraina richiede oggi al sistema di accoglienza italiano di affrontare anche un altro tipo di crisi. Con lei parliamo delle questioni psicologiche a cui far fronte ad emergenze umanitarie di questo tipo. 

Innanzitutto, specifica che “Il nostro sistema di accoglienza, già collaudato, dovrà adattarsi a questa crisi. E’ tutto da pianificare, tenendo a mente che non sappiamo per quanto tempo si protrarrà l’emergenza. L’orizzonte temporale, in caso di conflitto, è diverso, così come sono differenti i diritti riconosciuti a chi viene accolto”.

La crisi ucraina: differenze e sovrapposizioni con i flussi migratori precedenti

Abbiamo domandato a Cascio quali sono le differenze e le somiglianze, da un punto di vista psicologico, tra questa crisi e le emergenze umanitarie affrontate in precedenza.

Abbiamo sempre accolto persone che fuggivano da contesti di guerra ma che erano inserite in un meccanismo più organizzato e collaudato, con la presenza di enti preposti. Un meccanismo in cui purtroppo rientravano anche soggetti che gestivano il traffico delle persone. 

In generale, arrivavano con un vissuto di guerra con radici nella politica interna del paese di provenienza a cui corrispondeva, quindi, un immaginario di un certo tipo. Per esempio, il Senegal è una zona di conflitto a bassa intensità da decenni; anche se non è in guerra con altri paesi, c’è comunque una situazione di conflitto interno. In precedenza, molti sbarcavano in Italia dopo diversi anni di permanenza in Libia, dove subivano abusi e torture.

Per chi oggi viene dall’Ucraina, un paese che è stato attaccato e invaso, l’esperienza è completamente differente. Anche l’apparato normativo predisposto per l’accoglienza riflette delle differenze. La percezione del paese che accoglie si modifica: c’è una maggiore legittimazione dell’arrivo di queste persone dai territori invasi, e si ha la sensazione che si tratti di un fenomeno più vicino a noi, interno all’Europa. Ora abbiamo a che fare soprattutto con donne e minori, anche non accompagnati”.

Per quanto riguarda le somiglianze, si tratta in tutti i casi di persone sradicate dal loro contesto originario. E nello sradicamento non c’è scelta, soprattutto se si rende necessario per salvare la propria vita. Chi arriva in Italia è ovviamente provato dal punto di vista psicologico. Deve abituarsi all’impatto con il sistema di accoglienza, prima, e alla vita in un altro paese, poi”.

Cascio sottolinea come, dal punto di vista psicologico, le problematiche dei differenti flussi migratori siano le stesse. In primis, l’esposizione a traumi precedenti all’arrivo: il rischio di morte, il vissuto di perdita, l’aver assistito, talvolta direttamente, al decesso violento di persone care, l’allentamento dei legami familiari e la perdita della propria rete informale di supporto. L’impatto psicologico è amplificato dal dubbio, dall’interruzione dei contatti, dal “lutto sospeso”, ovvero dalla morte, non accertata, dei propri cari rimasti nel paese d’origine. 

A questo si aggiunge la mancanza di strumenti culturali per l’elaborazione del lutto e del trauma. Ogni comunità ha le proprie modalità e i propri riti collettivi per elaborare questi aspetti. È possibile tracciare, per esempio, un parallelismo con lo shock generato in noi dall’impossibilità di celebrare riti funebri per chi, nei momenti più acuti di pandemia, è deceduto in ospedale a causa del Covid-19. 

Nel paese di accoglienza non c’è la stessa possibilità di organizzare i funerali. L’opportunità di usufruire di supporto psicologico nella propria lingua è limitata. Si può anche ricorrere in un primo momento a persone con una stessa origine, non specializzate, che facciano da mediatori in ambito clinico. Ma anche loro possono essere vittime indirette del conflitto. In questo caso è importante tenere a mente il rischio di una ritraumatizzazione”.

Cascio sottolinea, infatti, come anche le persone di origine ucraina e russa che vivono già da tempo nel nostro paese meritino attenzione, in quanto fasce di popolazione più a rischio. Allo stesso modo di chiunque possa avere una risonanza emotiva con ciò che sta accadendo in Europa orientale, che può essere considerato, nell’ambito della psicologia dell’emergenza, vittima di IV, V o VI livello. Ad essere coinvolte nell’emergenza sono, infatti, intere comunità spesso impegnate nella pianificazione degli aiuti anche da remoto (IV livello), soggetti che avrebbero comunque potuto essere vittime in prima persona se non avessero lasciato il paese di origine (VI livello). In più, come tutti/e noi, essi si trovano immersi in una crisi umanitaria nella quale l’informazione, diffusa anche attraverso i social, li espone a una narrazione continua da cui è difficile, se non impossibile, sottrarsi.  

La gestione delle emergenze umanitarie su larga scala

“L’aiuto umanitario è un sistema globale, che coinvolge attori pubblici e privati, militari e civili”. Nel far fronte a una crisi umanitaria recentissima e improvvisa, i meccanismi di gestione istituzionale potrebbero trovarsi impreparati o non essere stati testati. L’immediata risposta a questi flussi di persone potrebbe seguire la scia dello spontaneismo che si riflette nella disponibilità, da parte di associazioni e famiglie, ad accogliere chi fugge dalla guerra. È ciò che stiamo osservando rispetto al conflitto in Ucraina.

Ma la gestione di eventi di questa complessità prevede, e necessita, dell’integrazione e del lavoro sinergico da parte di diversi soggetti pubblici e privati, delle ONG, di risorse specialistiche. 

Nonostante la bellezza di certi slanci, “lo spontaneismo, purtroppo, lascia il tempo che trova. E non è da sottovalutare l’effetto che può avere il contatto diretto con qualcuno che fugge dalla guerra. Condividere la quotidianità con persone fortemente traumatizzate può aumentare il rischio di sperimentare angoscia e ansia. In tutte le situazioni emergenziali è necessario promuovere l’integrazione tra le diverse funzioni che si attivano: sanitaria, logistica, di supporto materiale alla popolazione e così via. Questo perché in una situazione già di per sé molto caotica, le azioni non coordinate non fanno che creare ulteriore ‘rumore’. Il rischio è quello di non rispondere ai bisogni in maniera sostanziale, efficace ed efficiente. Per esempio, due soggetti che si occupano di uno stesso aspetto, se non si coordinano, possono sovrapporsi o lasciare i bisogni inevasi”. 

Se, come individui, vogliamo davvero essere d’aiuto in questa situazione, un consiglio non scontato è quello di “focalizzarci su quello che noi possiamo fare per tutelare prima di tutto il nostro benessere psicologico, coltivando nel quotidiano piccole azioni di cura di sé”, suggerisce Cascio. 

Perché l’intervento psicologico deve essere immediato

In situazioni così drammatiche, si potrebbe pensare che il lavoro psicologico possa essere rimandato, per concentrarsi, prima, sulla risoluzione di necessità più urgenti. 

In realtà”, spiega Cascio, “le linee guida internazionali raccomandano l’immediatezza dell’erogazione dei servizi di supporto psicologico. La ricerca dimostra che l’intervento psicologico in una fase precoce delle emergenze umanitarie ha un valore preventivo. Ci sono comunque protocolli di triage psicologico finalizzati a individuare delle classi di differibilità dell’intervento

La piramide di intervento per la salute mentale e il supporto psicosociale dell’IASC parlano di un primo intervento con uno spiccato valore preventivo rivolto a gruppi di persone, finalizzato a ripristinare un senso di protezione e sicurezza riattivando le reti di supporto e proponendo interventi di sistema e di natura non strettamente specialistica. Gli interventi di questo genere, rivolti alla maggior parte della popolazione, rappresentano la base della piramide di intervento IASC, mentre al vertice si trovano interventi mirati, specialistici, non rivolti alla totalità delle persone ma a fasce più vulnerabili. Per esempio, a chi ha un disturbo psichico pregresso che, in una situazione emergenziale, può riacuttizzarsi, oppure a minori soli e persone con disabilità. Insomma, per chi risulta più fragile per caratteristiche psicosociali o, a prescindere da questo, manifesta una reazione all’evento emergenziale che non si normalizza nel breve periodo e richiede un intervento specialistico.

Gli interventi di primo soccorso psicologico si differenziano da quelli che si focalizzano su un trauma non puntuale ma cumulativo, così come sono diversi dalle azioni che possono essere implementate in una fase successiva, quando l’emergenza è terminata e i sintomi persistono o potrebbero attivarsi ricordi traumatici in presenza di eventi triggeranti”. 

Il ruolo dello/a psicologo/a dell’emergenza

Come si può rispondere quindi, dal punto di vista del bisogno psicologico, alle emergenze umanitarie di questa portata? 

L’azione più importante nei confronti di chi è in fuga dalla guerra è ripristinare il senso di sicurezza e protezione, nel rispetto dei tempi di ciascuno. Proprio perché la situazione emergenziale crea disorientamento, sconcerto e soprattutto frammentazione, è fondamentale assolvere a una funzione integrativa.

“Tenere insieme” è una sorta di mantra per la psicologa o lo psicologo  dell’emergenza, la cui prerogativa è quella di incoraggiare una funzione riflessiva laddove tutti tendono a iper-attivarsi e “fare”, in una dinamica di contesto che, invece di facilitare gli interventi di supporto, può creare disagio e malessere. 

Oltre a favorire una riflessione sul “che cosa fare”, lo/la psicologo/a deve promuovere l’integrazione a livello intrapsichico nel soggetto in arrivo, ma anche tra individui e tra enti preposti all’accoglienza. Si trova a rispondere, quindi, a una serie di bisogni complessi. 

[…] questo ha valore anche in altri contesti d’intervento. Per esempio, in ambito ospedaliero, dove la persona viene difficilmente considerata nella propria interezza. Piuttosto, vengono prese in considerazione le sue differenti parti, perdendo di vista il suo benessere globale”. 

L’importanza del supporto psicologico, anche per chi non è direttamente coinvolto

E come si gestisce la tensione in chi, invece, vive questo conflitto dalla posizione di spettatore/spettatrice? 

È inequivocabile il fatto che, negli ultimi due anni, siamo stati tutti e tutte sottoposti a forti sollecitazioni dal punto di vista psicologico. Proprio quando l’impatto della pandemia sulle modalità di vivere la socialità e le relazioni sembrava essersi attenuato, è subentrato quasi immediatamente lo stress psicologico legato al divampare del conflitto in Ucraina.

Probabilmente in molti e molte, dopo aver accumulato tensione e aver sperimentato nuove ansie e insicurezze, ci siamo detti “Non ci voleva proprio”. E poi, magari, riconoscendo il dramma di chi questa guerra la sta vivendo sulla propria pelle, ci siamo anche sentiti/e in colpa per il nostro egocentrismo. 

Ma le ripercussioni che questo stato di stress prolungato ha sulla nostra salute psicologica non sono comunque da sottovalutare, anche alla luce del fatto che siamo, volenti o nolenti, continuamente esposti a flussi informativi riguardanti la guerra che si intrecciano nell’arco della giornata su diversi media, nei discorsi comuni e nel nostro rapporto con i pensieri intrusivi e le emozioni che ne derivano. 

L’esposizione cronica allo stress ha effetti psicofisiologici sul nostro corpo. Siamo stati esposti alla paura di ammalarci e di morire per il Covid, noi come i nostri cari. Lo stress derivante dalla guerra e dalle emergenze umanitarie si aggiunge al precedente. Siamo continuamente esposti a scenari che potrebbero riguardarci sempre più da vicino, per esempio la minaccia di una guerra nucleare. Questo ci mette in una condizione di allerta che si trasforma in stress. Scatta naturalmente in noi un meccanismo di immedesimazione che aumenta l’insicurezza percepita. Tentare di sottrarsi all’infodemia per assumere notizie a piccole dosi, senza estraniarsi totalmente da una realtà che comunque ci riguarda, è un consiglio valido”, suggerisce Cascio. 

È importante dosare l’esposizione anche di bambini e bambine, non lasciandoli soli/e davanti alle notizie. “L’interpretazione dei più giovani dipende dalle reazioni emotive che osservano negli adulti di riferimento. Se percepiscono il pericolo, immagineranno di trovarsi in quella condizione, pertanto è fondamentale spiegare ai bambini che cosa sta accadendo”. 

Si rivela quindi cruciale imparare a processare, a digerire le informazioni a cui siamo esposti/e, evitando di fagocitarle senza vera cognizione di causa. Come ci ricorda tlon.it, anche se ci fa sentire a posto con la nostra coscienza dandoci l’illusione di starci occupando del problema, l’accumulo di aggiornamenti non produce conoscenza, né è in grado di rassicurarci realmente. Cascio, prendendo in prestito il termine dall’ambito del lavoro digitale, ci ricorda che possiamo esercitare il nostro diritto alla disconnessione

Inoltre, “Quando ci sentiamo sopraffatti/e e la situazione ci sembra ingestibile, diventa importante rivolgersi a un/una professionista della salute psicologica”. 

Per approfondire

Le Linee guida sulla salute mentale e il supporto psicosociale nei contesti di emergenza 

Rufini, G. Calvo-Parisetti, P. (2006). Nell’emergenza. Teoria e pratica degli aiuti umanitari. Gignos Institute, Ginevra. Consultabile qui.

 

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