Accogliere l’altro, l’importanza dell’accogliere

Accogliere e lasciarsi accogliere fino alla prossima partenza, e alla nuova meta, per rimescolare le carte del viaggio.

accogliere l'altro

Accògliere (poet. accòrre) deriva dal latino accollĭgĕre, coniugabile come il verbo cogliere e significa ricevere; in particolare, ricevere nella propria casa, ammettere nel proprio gruppo, temporaneamente o stabilmente, accogliere l’altro.

La Treccani sottolinea come questo verbo abbia a che fare soprattutto con il modo, il sentimento, le manifestazioni con cui si riceve l’Altro: un ospite, un amico, uno sconosciuto. Lo si può fare affettuosamente, con gioia – “fu accolto in quella casa come un figlio”, oppure, “il nuovo venuto fu accolto con scarso entusiasmo”, o anche “il direttore lo accolse con molta freddezza”, oppure ancora “alla sua entrata in scena, l’attore fu accolto dal pubblico con grandi applausi”.

 

Il significato e l’etimologia

Accògliere significa anche ricevere, sentire, accettare – accogliere notizie, per esempio, o proposte, o anche richieste con un determinato atteggiamento o stato d’animo: “come ha accolto la notizia?” Il verbo in questione rimanda dunque all’approvazione o meno di un’idea, di un consiglio, di una richiesta. Riferito a un ambiente interno, psichico, sottolinea la possibilità di ricevere emozioni e traduzioni di senso dentro di sé. Rispetto a un ambiente esterno, una città, un territorio, una casa, il verbo apre spazi di rifugio o ospitalità: “il natio Borgo t’accoglie lieta madre e sposa” (Carducci). Il Vocabolario Treccani sottolinea il senso contenitivo del verbo, il suo ricevere per contenere: “un teatro che può accogliere tremila spettatori”, o ancora “preziosi Vasi accogliean le lagrime votive” (Foscolo). Accogliere è un po’ raccogliere, radunare, riunire: “Non morì già, ché sue virtuti accolse Tutte in quel punto e in guardia al cor le mise” (T. Tasso). Se riflessivo, indica il  radunarsi, il riunirsi in un luogo o presso qualcuno: “Tosto sotto i suoi duci ogn’uom s’accoglie” (T. Tasso), nonché l’accogliersi a qualcuno, nel modo dell’accostarsi o dello stringersi a lui: “Lo buon maestro a me tutto s’accolse” (Dante). (1)

 

L’accoglienza ha bisogno del suo tempo e di uno spazio.

Aeroporto, stazione, porto. Approdiamo in una nuova città con tutta l’intenzione di fermarci per un anno o per chissà quanto tempo. Arriviamo in un luogo che per noi, da oggi, sarà ‘casa’. Andiamo ad abitare in un altro paese per questioni legate alla professione, o magari per un amore che ci porta a cambiare vita, o per esplorare i limiti di noi stessi e del nostro sentirci adulti, autonomi e coraggiosi. Espatriamo per queste o per altre motivazioni che abbiamo accolto sia dentro di noi che attraverso le azioni, seguendo la necessità di partire, lasciando ‘il noto’ per ritrovarci nel ‘non ancora conosciuto’: nuovi ambienti, nuovi odori e sapori, volti e voci da scoprire. Ci guardiamo intorno, cercando di orientarci. Per alcuni expat, l’arrivo a destinazione (che sia una meta più o meno temporanea) non corrisponde al primo sopralluogo. Per organizzare il transito, spesso e volentieri ci si muove attraverso più passaggi, e dalla prima impressione si passa al viaggio vero e proprio per organizzare lo spostamento, come nel caso di:

Margherita P.: “Sono andata per gradi, sono venuta su più volte da Torino a Berlino, familiarizzandomi con tutto: la gente, che all’inizio mi sembrava molto più fredda di quello che è, le vie, i negozi vicino all’appartamento che ho affittato in condivisione con una ragazza inglese. Persino gli odori mi sono sembrati man mano più buoni. Ci ho messo il mio tempo.” La storia di Margherita racconta un progetto che si è svolto a tappe, ma c’è chi ha deciso di organizzare il proprio transito con una App. Quick Move è un il servizio che permette a chi si muove per lavoro di prenotare un volo e affittare un alloggio comodamente dall’Italia, attivando persino – nei paesi in cui tutto questo è possibile senza troppi cavilli burocratici – l’iter per i documenti. Insomma, una facilitazione per quanto riguarda gli spostamenti e gli aspetti tecnici dell’espatrio. Sembra quasi semplice; sembra già di essere sul posto. Per tutto il resto, soprattutto per poter accogliere la nuova esperienza dentro e fuori di noi, ci sono i tempi della nostra psiche (che possono essere anche decisamente più lunghi di quelli offerti da una App, per quanto utile sia). (2)

 

Accogliamo il nuovo che ci si prospetta e veniamo a nostra volta accolti. 

Attraversare il transito: abbiamo chiesto ad alcuni expat di raccontare la loro storia di ‘accoglienza’: il modo in cui sono stati accolti all’estero, come si sono sentiti accolti e come hanno accolto il cambiamento dentro se stessi. Nel lavoro terapeutico, inoltre, il tema dell’accoglienza è emerso tra i principali nodi delle narrazioni di espatrio.

Due sono le linee di analisi: la prima ci connette a una riflessione sul tipo di paese scelto per ‘l’approdo’, un pensiero sul luogo specifico in cui l’azienda ha inviato il suo dipendente a lavorare o che la persona ha valutato come meta in autonomia. Secondo l’ultimo sondaggio della HSBC, la Hongkong & Shanghai Banking Corporation, è la Svizzera il paese migliore per espatriare. Un balzo in avanti di ben sette posizioni quest’anno, ed ecco che sale sul podio la nostra vicina di casa per le opportunità di carriera – ma si distingue anche per qualità della vita, e si rivela adatta alle famiglie. La medaglia d’argento va a Singapore, seguita dal Canada, dalla Spagna e dalla Nuova Zelanda che sono in cima alla classifica per ciò che offrono ai lavoratori stranieri in termini di accoglienza, benessere possibile e qualità della vita. Anche la Norvegia e la Svezia brillano, come tutta l’Europa del Nord, e restano mete ambite per la sicurezza dei luoghi con grandi vantaggi per lo stile di vita. (3)

Andrea R. si è spostato per lavoro da Napoli a Oslo. Ci racconta della sua difficoltà ad accogliere prima di tutto un clima non mediterraneo, fattore che per lui si è rivelato decisivo nei primi tempi della permanenza in Norveglia, tanto da spingerlo a rientrare in Italia: “Ero passato dal sole al… solo freddo”, ci scrive, narrando inoltre come non riuscisse ad avviare relazioni amicali e professionali serene, posizionandosi per primo in una modalità di non-accoglienza. Se la meta dell’espatrio è un luogo lontano dei punti di riferimento abituali, il luogo e tutto ciò che questo contiene in termini di elementi vitali diventa schermo e può essere accogliente o meno, così come respingente può diventare tutto ciò che è contenuto nel contesto. La seconda riflessione sul tema ci porta dunque alle differenze individuali in termini di personalità e capacità personale di leggere e tradurre il senso della propria esperienza, perché la disponibilità dell’expat ad accogliere il cambiamento può essere una bella sfida, un modo per evolvere o, viceversa, un ostacolo al proprio percorso di vita.

Differenza di accogliere

Gli expat che abbiamo intervistato negli ultimi due anni hanno sottolineato il tema delle differenze da accogliere, dentro e fuori di sé, nella familiarizzazione con il nuovo – nuova meta, nuovo paese, nuova vita – per poter essere accolti. Oggi che è diventato sempre più facile viaggiare per il mondo e ri-costruirsi in un altro paese, l’esperienza di espatrio resta comunque un grande cambiamento che a volte può davvero spaventare.

Roberto B. ha saputo accogliere il cambiamento percorrendo passo dopo passo il lungo iter del proprio espatrio: si è trasferito con la moglie Paola dal caos di una Milano frenetica e inquinata a un piccolo paese della Svizzera con l’intenzione di rimescolare le carte professionali di entrambi. La coppia vive oggi in un luogo magico, circondato da montagne, con un lago che rende il paesaggio unico. Molte sono state, racconta Roberto, le differenze che lo hanno colpito inizialmente, a partire dallo stile di vita svizzero, fino al modo di accogliere le competenze che portava nel proprio bagaglio esperienziale. Roberto narra lo scenario naturale della nuova casa come uno degli elementi che l’hanno fatto sentire accolto, che gli hanno dato l’energia giusta per studiare e per perfezionare le tecniche di massaggio terapeutico fino a farlo diventare un professionista specializzato che adesso opera nel settore pubblico – con un salario e un riconoscimento molto diversi da quelli che avrebbe percepito in Italia.

Serena P. ci racconta il suo passaggio da una grande città italiana a una grande e romantica metropoli europea: Parigi. Per capire come affittare un appartamento e come affrontare l’iter relativo ai documenti, l’apertura del conto in banca, nonché l’iscrizione all’università, Serena ha dovuto unire le tessere di un puzzle terribilmente complicato. In un primo momento, le sembrava impossibile venirne a capo, perché senza un pezzo di questo puzzle non era possibile agganciarne un altro. Le pratiche per iscriversi al corso di studi sono state per lei una vera impresa, nel caos di sistema burocratico che le sembrava assurdo, giocato sul continuo impedimento. A guardare la Francia dall’Italia, questa giovane donna non poteva immaginare, dice, che le cose sarebbero state così ingarbugliate: “Per avere il conto in banca devi avere il numero di telefono, per avere il numero di telefono devi avere un lavoro e con la burocrazia francese si sono aggiunti cavilli su cavilli”. Ma Serena non si è data per vinta, accogliendo prima di tutto le difficoltà. Non era il caso di fermarsi alla prima persona incontrata allo sportello della banca, per esempio. Ogni volta che incappava in un ostacolo, o in un netto rifiuto, lei non si abbatteva. Il giorno successivo si presentava puntualmente allo stesso sportello e l’ostacolo si scioglieva grazie all’incontro con un’altra persona, Ecco che un secondo o un terzo impiegato, diverso dai precedenti, metteva in luce nuove possibilità. E così, finalmente, Serena ha potuto superare l’impasse – il documento mancante, lo scoglio apparentemente insormontabile – imparando a conoscere i francesi e le loro abitudini, cominciando a muoversi un po’ come una vera francese nelle questioni pratiche e addirittura, novità fresca di pochi giorni, è riuscita a ottenere la doppia cittadinanza. Serena è stata accolta: “Soltanto il prendere posizione con le persone, imparando a chiedere aiuto e accogliendo la differenza” ha permesso alla giovane italiana di ristrutturare il proprio presente e di aprirsi al futuro.

In un recente articolo de Il Sole 24 Ore, si legge che per ogni cento italiani che risiedono nel nostro Paese, ce ne sono quasi nove che vivono all’estero. Secondo i numeri  della Fondazione Migrantes nel suo ultimo rapporto sono poco meno di meno di 5,3 milioni gli iscritti all’Aire (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), che hanno segnalato allo stato di essere emigrati altrove nel mondo. La comunità più ampia sembra essere quella che vive oggi in Argentina e include quasi 850mila persone. Seguono due nazioni europee – la Germania e la Svizzera – con numeri leggermente inferiori, poi il Brasile e infine la Francia a chiudere le prime cinque destinazioni. Ma gli italiani nel corso del tempo sono arrivati in ogni angolo abitato del pianeta. Dai più densamente popolati come le metropoli degli Stati Uniti, fino alll’insediamento umano più remoto del mondo, l’arcipelago Tristan da Cunha in mezzo all’Oceano Atlantico dove due degli otto cognomi presenti sono di origine genovese, “tramandati da due naufraghi di Camogli, approdati nel 1892”.

Ma che cosa raccontano le esperienze reali di alcuni espatriati? 

Emma F. (intervistata in questo stesso sito nel 2019) ha viaggiato e ha vissuto in diversi paesi del mondo. Ogni volta ha preso coscienza del proprio essere in viaggio verso l’altrove ma ancora e sempre qui, figlia della sua Sardegna. Oggi ci racconta la sua storia danese, condivisa a Copenhagen con il marito Piero, compagno di espatrio. “I primi momenti in Danimarca e l’accoglienza? Ed eccoci sotto il sole, il 25 luglio di sei anni fa”. Da brava scrittrice, Emma ci fa immaginare lo scenario fiabesco del Nord, ma il paesaggio è diverso da come potremmo pensare. “Non neve, sole tutto il giorno e le case di Nyhavn coloratissime che si specchiano sul canale.” Dalla Sardegna al Nord, il passo è più breve del previsto. “In Danimarca non si chiede ‘come stai?’, non ci si bacia sulle guance per salutarsi, meglio una pacca sulle spalle, e non ci si integra facilmente in un gruppo di amici che si frequentano dai tempi della scuola. Mi ricordo la libertà, la leggerezza di potersi vestire come si vuole. Nella metro di Copenhagen puoi viaggiare vestita da Biancaneve (fatto), in pigiama (non fatto, ancora), con un abito da sposa (fatto) e nessuno si meraviglia. Cosa notavano di me? La pelle bianchissima, nonostante gli occhi e i capelli scuri, i modi mediterranei, la voce squillante e la nomea di italiana, ossia persona solare, appassionata e poco incline alle regole, con un governo ritenuto buffo.”

Accogliere e lasciarsi accogliere fino alla prossima partenza, e alla nuova meta, per rimescolare le carte del viaggio…

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