Secondo i dati di UNCHR, le persone che sono state costrette a lasciare le loro case per fuggire da guerre, persecuzioni e gravi condizioni di insicurezza sono 82,4 milioni, ovvero l’1 per cento della popolazione mondiale: una cifra mai raggiunta in passato.
Individui o intere famiglie che come nel peggiore degli incubi vivono ‘bloccati’ tra due paesi, senza la possibilità di procedere il loro lungo e sofferto cammino di speranza e neanche quella di poter tornare indietro.
É una situazione di immobilità insopportabile quella vissuta negli hotspot o campi profughi, non-città in miniatura che crescono a dismisura. Sistemazioni provvisorie negli angoli più nascosti del continente, dove gli esseri umani si vedono considerati inutili al sistema e all’interno delle quali sono costretti a vivere per brevi o lunghi, anche lunghissimi, periodi di privazione di sogni e libertà.
Alle porte dell’Europa la Grecia conta una decina di campi profughi di dubbia accoglienza, sulle isole e nell’area continentale del paese.
In tre di questi (Lesbo, Chios e Samos) MSF porta avanti un importante e difficile progetto per la tutela della salute mentale. Mara Tunno, psicologa nel campo Moria 2.0 – il nuovo maxi-campo costruito a seguito del grande incendio del 2020 -, racconta l’estrema difficoltà di intervento in un luogo per nulla adatto a vittime di esperienze traumatiche, alle quali le attuali politiche migratorie stanno causando danni irreversibili.
Senza diritti, contro le intemperie. La vita nei campi profughi
Il campo di Moria 2.0 conta circa 6000 persone, di cui 2500 minori; condizioni igieniche critiche e tende da campeggio come unità abitative, è facile immaginare il caldo soffocante in questo periodo (nell’area non c’è ombra) e il gelo in inverno (a dicembre ha nevicato).
“La prima impressione che si ha quando si entra a Moria è quella di essere in un luogo di detenzione, contenimento, controllo” racconta Mara Tunno. “Due check point controllano eventuali uscite o fughe, la libertà di movimento è ridotta e tutto ciò che entra nel campo, inclusi i beni primari portati dalle associazioni, è controllato e limitato.
L’area si trova davanti al mare ed è esposto a qualsiasi evento atmosferico: umidità, freddo, allagamenti, fango, vento. A causa della mancanza di ombra dentro le tende non si respira e manca l’aria.
Alcune sono anche piuttosto affollate e in quelle più grandi ci sono due o più famiglie, divise da una leggera separazione.
Non è un luogo adatto a esseri umani, soprattutto a coloro che hanno vissuto molteplici traumi, e per nulla accogliente per i numerosi disabili di guerra o anziani (ci sono persone che non possono camminare) e per quasi l’intera popolazione del campo che soffre di disturbi da stress post-traumatico.
Una terra franca che non garantisce accesso alla cure mediche o psichiche, se non quelle offerte da ONG e associazioni di volontariato presenti sul posto”.
Un muro di burocrazia e frustrazione
“La procedura per richiedere lo status di rifugiato è molto lunga e poco chiara; questa prospettiva a tempo indeterminato, alcuni ci sono rimasti qui quattro anni, è causa di ulteriori disagi psichici.
Chi mette piede a Lesbo viene sottoposto a un colloquio per inoltrare la richiesta di asilo. Il colloquio è in realtà un vero e proprio interlocutorio che può durare anche sei ore, in cui si indaga sul proprio vissuto personale che include torture subite, violenze sessuali, episodi di guerra.
Senza il supporto di uno psicologo o di un mediatore è facile avere un crollo emotivo dopo qualche domanda; infatti quasi a tutti viene respinta la richiesta di ingresso.
Un rifiuto dagli effetti devastanti che genera estrema frustrazione: molti di loro, dopo aver affrontato difficoltà incredibili e aver rischiato la vita nel percorso, non riescono a reagire e per parecchio tempo vengono travolti da un sentimento di totale arresa.
Inizia così la preparazione al colloquio successivo, ma più si va avanti e più l’attesa diventa logorante e devastante dal punto di vista psicologico”.
Vittime dei campi profughi
Nel campo durante la giornata non c’è molto da fare. Fino allo scorso anno esisteva un luogo che era diventato modello di accoglienza e solidarietà sull’isola: il campo di Pikpa, un spazio dignitoso dedicato alle persone estremamente vulnerabili (disabili o bimbi molto piccoli), più adatto anche al supporto psicologico e alla cura.
Un progetto concreto e attivo, che vantava alloggi in container, una biblioteca e attività ricreative.
Il campo è stato sgomberato il 30 ottobre 2020 con un’operazione di polizia e le persone trasferite nel vicino campo di Kara Tepe.
Ad Aprile 2021 è stato chiuso anche Kara Tepe e i 400 considerati ‘estremamente vulnerabili’ sono stati trasportati nel maxi-campo Moria 2.0, nato come provisional camp dopo l’incendio, ma per ora l’unico pezzo di terra che accoglie tutti. Proprio quel campo, Moria 2.0, definito dalle associazioni disumano, degradante e assolutamente inadeguato per gli ‘estremamente vulnerabili’.
“L’esperienza di vita nel campo è di per sé un evento traumatico che si aggiunge a un vissuto già difficile da portarsi dietro.
É difficile curare qualcuno che sta vivendo un’ulteriore situazione di forte disagio, in un luogo che ti conduce lentamente a un processo di ‘deumanizzazione’.
La giustificazione del trasferimento di tutte quelle persone a Moria è stata quella di dover garantire maggiore controllo e sicurezza, ma sembra più un’azione mirata a disincentivare l’arrivo dei richiedenti asilo” sostiene Mara.
“Oltre alle condizioni igieniche e all’insicurezza ci sono stati episodi come l’incendio, gli scontri con la polizia, eventi atmosferici particolarmente avversi, che hanno provocato seri danni soprattutto nei bambini. Alcune famiglie non escono dalla tenda perché questa non si chiude a chiave e, a causa del proprio vissuto personale, non si sentono sicuri.
Bambini che quando sono arrivati qui erano ancora allegri e vivaci, in seguito all’incendio e agli scontri non interagiscono più con nessuno, non parlano più ed è come se si fossero ‘spenti’. Questo è l’esempio di come il campo sia in grado di far ammalare anche le persone che arrivano sane.
E oltre alla tragedia dei bambini c’è quella dei genitori, ostaggi dei propri sensi di colpa per averli portati fino qui, arrivati con la speranza di donare un futuro migliore e che invece si vedono bloccati senza intravedere prospettive”.
Un approccio multiculturale
Oggi, a Lesbo, la maggior parte dei nuovi arrivati proviene dall’Afghanistan. A seguire i cittadini di Congo, Iraq, Siria e Somalia.
“In alcuni paesi esiste il tabù dello psicologo e non tutti capiscono inizialmente cosa si fa durante una seduta e quali sono gli obiettivi.
Nonostante questo non abbiamo mai visto casi di rifiuto, anzi, molti di loro chiedono di parlare con lo psicologo e abbiamo una costante lista di attesa. Il supporto alla salute mentale in questa situazione è talmente fondamentale che le risorse umane non sono mai abbastanza.
Il progetto per tutelare la salute mentale di MSF prevede sedute e incontri in una clinica fuori dal campo: una scelta presa sia per questioni pratiche (privacy e tranquillità nel campo sono impossibili) ma anche perché i pazienti hanno bisogno di un luogo più accogliente e adatto alla terapia.
L’incontro con lo psicologo rappresenta anche la possibilità di andare in un luogo pulito e usare un bagno dignitoso. Fuori dai campi profughi si sentono più a loro agio e già questo li aiuta a stare un po’ meglio.
MSF in generale segue i casi che manifestano disturbi più gravi: vittime di tortura, persecuzione, violenza sessuale, contesti di guerra e altri vissuti molto importanti.
Sono sempre affiancata da un mediatore culturale, che non è un semplice traduttore ma una figura fondamentale che mi aiuta a comprendere i contesti di provenienza.
I miei pazienti manifestano disturbi da stress post-traumatico: depressione, psicosi, ansia, continui flashback, incubi, problemi del sonno, isolamento sociale, autolesionismo, pensieri suicidi e tentativi di suicidio, molto comuni anche tra i bambini.
Oltre ai traumi nei paesi di origine, ci sono quelli legati al percorso migratorio: violenza, abuso sessuale, rapimento, rischio di annegamento, paura, e altre situazioni di estrema insicurezza.
Purtroppo non esiste ancora una ricerca relativa al campo dell’etnopsichiatria, ma nella mia esperienza posso dire di aver notato sintomi più diffusi in alcune culture rispetto ad altre: le persone provenienti dall’Afghanistan, in generale, soffrono maggiormente di depressione, autolesionismo, crisi epilettiche e svenimenti, mentre tra coloro che provengono dai paesi africani si segnalano più sovente casi di allucinazioni e altri sintomi psicotici”.
L’angolo più buio dell’Europa
Per Mara quella di Lesbo è la seconda esperienza di missione umanitaria, dopo alcuni mesi trascorsi lo scorso anno in Cambogia.
É arrivata a dicembre e ad agosto tornerà a casa. I ritmi di lavoro sono intensi e si vive in una situazione complessa dal punto di vista emotivo.
“Le persone con le quali parlo ogni giorno si sono rese conto che, dopo avere rischiato la vita per arrivare fino qui, l’Europa non è quello che credevano, ovvero non è salvezza e protezione. Alcuni chiedono di tornare indietro, ma attualmente la Grecia non è autorizzata rimpatriare se i paesi di origine non sono considerati ‘sicuri’.
La cosa peggiore per me è sentire un siriano dire che preferisce tornare nel suo paese sotto le bombe, perché qui si sente morire lentamente, ed è una fine ancora peggiore.
Sono parole mi fanno vergognare di essere europea. Un luogo come il campo di Moria è un posto che non ti aspetti di trovare in Europa.
E vedere quello che vivono oggi rappresenta un ostacolo insormontabile per superare i traumi del passato, mi annienta.
Qui non si guarisce, si sopravvive, si galleggia, fino a quando un pezzo di carta non apre finalmente le porte del luogo di prigionia. Ma anche una volta usciti da qui la situazione non sempre migliora.
In Grecia il sistema di seconda accoglienza è molto debole e i migranti non sono supportati. Una volta ottenuto lo status di rifugiato bisogna lasciare il campo entro 30 giorni, e molti si ritrovano per la strada, senza risorse economiche, senza un lavoro, senza parlare la lingua e senza alcun sostegno psicologico o supporto per l’inserimento nella nuova società”.
Un grande esempio di resilienza
Oltre ai progetti di salute di MSF e altre organizzazioni, il ruolo svolto dagli health promoter è fondamentale: promuovono la salute all’interno dei capi profughi, si occupano dei problemi o segnalano nuove esigenze, e allo stesso tempo agiscono come mediatori culturali per il proprio gruppo linguistico di riferimento.
“Quando ho l’impressione che non ci sia una via d’uscita da questa situazione penso alla forza delle persone che vivono nel campo, che lottano ogni giorno e che sono riuscite ad arrivare fino qui nonostante le difficoltà.
La loro resilienza silenziosa mi fa andare avanti.
Ammiro anche la forza di reagire che hanno molti di loro e soprattutto la capacità di autogestione e auto-organizzazione, nonostante provengano da luoghi lontani e parlino lingue diverse”.
Tra le organizzazioni che cercano di migliorare le condizioni di vita nel campo, Refugees 4 Refugees è un’associazione nata dai rifugiati stessi.
Alcuni di loro hanno ottenuto il visto ma sono tornati per dare una mano importante. Organizzano gruppi di sport, intrattenimento e una scuola improvvisata per i bambini divisa in gruppi linguistici.
“Laddove il governo non arriva, i rifugiati mettono a disposizione degli altri le proprie competenze per creare momenti di svago, educazione, ma anche svolgere attività pratiche come pulizia, costruzione di impianti idrici o elettrici e riparazione delle tende, prendendosi cura della loro nuova comunità, internazionale e multiculturale.
Entrare nel campo e vedere un gruppo di preghiera, persone di paesi diversi che si sostengono a vicenda, oppure alcuni miei pazienti che hanno nuovi amici che gli ricordano di prendere le medicine: tutto questo mi fa continuare a sperare”.