Cosa sono i Parent Training
I Parent Training, cui qui facciamo riferimento, sono percorsi brevi finalizzati a supportare le famiglie, in particolare con figli e figlie che hanno dei support needs, cioè che necessitano di supporto per una situazione di disabilità o di malattia incurabile.
Si tratta di veri e propri interventi di orientamento, che mettono al centro la persona, con i propri bisogni e necessità e agiscono sul sistema familiare. L’obiettivo che si propongono è quello di costruire progetti di vita che tengano conto del sistema familiare stesso e del contesto più allargato, al fine di prevenire fallimenti di piccoli o grandi obiettivi per mancanza del supporto delle persone più importanti, o per mancanza di condivisione degli obiettivi stessi.
Sono, più in generale, percorsi finalizzati a supportare la famiglia nel processo di autonomizzazione del figlio o della figlia disabile, centrati sull’apprendimento di strategie decisionali, di capacità di reperimento di informazioni e risorse essenziali per sostenere il percorso di autonomia anche in previsione della futura mancanza delle figure genitoriali o di altre figure significative.
Sostenibilità, benessere, qualità della vita
I percorsi, possiamo anche dire, mirano a individuare obiettivi per un futuro sostenibile, non solo per la persona disabile, ma per tutte le persone coinvolte nella cura e nell’assistenza, a partire da genitori, fratelli, sorelle. Per questo la partecipazione ai percorsi di Parent Training è consigliata a tutti i membri della famiglia che desiderano essere coinvolti.
Quando parliamo di sostenibilità riferita a un obiettivo, usiamo il termine nella sua declinazione più ampia. Facciamo riferimento ad una sostenibilità di fronte alla fatica di tutti i giorni, che deve essere commisurata alle energie disponibili e alla durata nel tempo di tale richiesta energetica, pena il mancato raggiungimento dell’obiettivo.
Trovare un equilibrio, “saper dosare”, fa la differenza in diverse occasioni di vita quotidiana. Nella nostra esperienza sono molti i genitori che, in questi momenti di confronto e riflessione, realizzano e mettono a fuoco, anche dal punto di vista verbale, una necessità: devo durare.
Qui entra in gioco il benessere. Ben-essere, ovvero esistere bene. Ma di cosa parliamo quando parliamo di benessere? Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, il benessere consiste in uno “stato di equilibrio momentaneo e dinamico dal punto di vista biologico, psichico e sociale dell’essere umano”.
Il benessere coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano, caratterizzandone la qualità di vita nel contesto sociale.
Conoscere i vari aspetti che determinano il benessere (psicologico, fisiologico, relazionale) ci aiuta anche nella definizione delle nostre priorità.
Sin dalla prima diagnosi, indicano alcuni studi, molti genitori avvertono la necessità di dover disporre di più tempo. In alcuni casi per la gestione delle abilità funzionali, come vestirsi, lavarsi o nutrirsi autonomamente, in altri per le visite specialistiche e, più in generale, per accompagnamenti verso luoghi o attività che difficilmente i figli potrebbero raggiungere o svolgere da soli.
Identità e rappresentazioni di sé, della propria vita
Tutto questo comporta cambiamenti importanti, come per esempio la definizione dei ruoli all’interno della famiglia e una possibile “attribuzione di nuovi significati alla propria vita, così come l’attribuirsi capacità e forze prima impensabili oltre che la capacità di riformulare gli scopi personali per se stessi e per i figli”(Hastings e Taunt, 2002).
I Parent Training, nella cornice qui descritta, si configurano come una reale possibilità di supporto, adeguata ai bisogni specifici, di tali cambiamenti.
Quando parliamo di identità e rappresentazioni di sé non andiamo con la mente a un testo accademico, ma sollecitiamo una riflessione più individuale, sulla rappresentazione (cioè cosa e come pensiamo) di noi, della nostra vita, più in generale della disabilità. Pensiamo a come e cosa diciamo alle persone che vivono accanto a noi, alle persone che incontriamo in ambito sanitario, o nei contesti scolastici. A cosa pensano di noi, dei nostri figli, della disabilità, della nostra vita, le persone più significative per le nostre vite.
Le parole sono importanti
Ne abbiamo scritto più volte: la scelta delle parole da dire (o da non dire) necessita di particolare attenzione e influenza il riconoscimento della propria identità.
Il linguaggio, grazie alla sua facoltà di rappresentazione simbolica, rende accessibile ad altri l’esperienza interiore degli individui, ha il potere di ri-produrre il mondo, oppure di crearne di nuovi.
Un potere straordinario, di cui siamo più o meno consapevoli. Tra le attività possibili, in un percorso di Parent Training c’è quella di fare mente locale anche sulla scelta dei vocaboli a cui ricorriamo per dire di noi ciò che riteniamo importante, per fare richieste all’esterno, per rivolgerci ai nostri figli, e via così.
In questo articolo abbiamo parlato di due teorie, Identity first e Person fisrt, che rappresentano i due principali approcci per descrivere in modo appropriato il rapporto tra persona e disabilità.
La scelta delle parole ci aiuta a fare la differenza tra persone e personalità, per dirla con Searle.
Searle spiegava la genesi degli oggetti sociali con questa formula: X = Y : C, che possiamo leggere così: l’oggetto fisico X conta come l’oggetto sociale Y nel suo contesto, C.
Cosa ce ne facciamo di questa regola quando parliamo delle persone e delle rappresentazioni che ci facciamo di loro? Cosa ce ne facciamo di questa regola quando parliamo di disabilità?
Facciamo alcuni esempi, provando a rileggere la formula in questo modo:
Silvia conta come psicologa nel suo studio.
Marco conta come allievo in aula.
Cosa succederebbe se Silvia, incontrando un suo paziente al supermercato, avanzasse la pretesa di far valere la sua identità di psicologa e facesse domande personali, in attesa alla cassa?
E ancora, se l’insegnante di Marco pretendesse di estenderne l’identità di allievo oltre il contesto della scuola e pretendesse, incontrandolo al cinema la sera, di interrogarlo?
Sono situazioni che fanno sorridere.
Eppure, spesso ci mettiamo in quelle situazioni, o qualcuno mette noi, o siamo noi a metterci gli altri. L’errore qual è? Pensare che ovunque valga un ruolo oppure uno status di un qualche tipo.
La mamma, l’allievo, il disabile, senza lasciare spazio alla persona di essere diversa, libera di essere una cosa e il suo contrario. Con i figli, disabili o meno, possiamo provare a immaginare, per esempio, cosa succede se attribuiamo un’etichetta, un’identità fissa, come “sei il solito pigro”, “sei sempre distratta”.
Definire, linguisticamente, cambia l’atteggiamento. Per fare questo passaggio ci vuole una disponibilità, che spesso viene definita dalle persone come Coraggio.
Fare advocacy: un’esperienza internazionale
Tra i possibili esiti di un percorso di Parent Training c’è, quindi, una maggior consapevolezza di chi siamo, del contesto in cui viviamo. Consapevolezza che può essere d’aiuto e migliorare la qualità delle relazioni e più in generale la qualità della vita di tutto il sistema famigliare. La stessa consapevolezza può essere d’aiuto non solo a noi, ma anche alla comunità più allargata, al mondo in cui viviamo. Ce lo racconta Verena, mamma di P, bambino di 9 anni con una sindrome rara.
Lei è un’architetta organizzativa, la comunicazione è nelle sue corde.
Da quando ha iniziato a comunicare come Rare diseases Advocate (Malan Syndrom Foundation) ha scoperto che “spesso bisogna prima comunicare quello che non sei, quello che non fai, che non rappresenti”.
Per farci comprendere meglio racconta:
“Per vent’anni ho lavorato in ambito accademico e comunicato. Come ricercatrice è facile. Ma quando la comunicazione è rivolta a un pubblico diverso dal tuo, cambia tutto. Non parli più nel tuo gergo con la tua tribù: esci dalla tua zona di comfort.
Mi sono trovata a dover prima comunicare quello che non sono.
Non sono un architetto che progetta case, non sono una ricercatrice che lavora in laboratorio e mescola pozioni, non sono una super mamma o una guerrigliera solo perché ho un figlio con una disabilità. Credo che nel comunicare debba esserci sempre un’intenzione: eliminare zone d’ombra e fraintendimenti.
Noi tutti siamo abituati a vedere le persone che convivono con una disabilità (e le loro famiglie) come persone meno fortunate (poverini) oppure come persone superdotate (superpoteri) oppure come dei soldati che ogni giorno combattono contro qualcosa – e non è così.
Non siamo poverini, supereroi o guerrieri.
Siamo soltanto persone che fanno un viaggio inaspettato – percorrendo una strada ignota. E che vogliono vivere questo percorso al meglio possibile – come tutti.
E prima di comunicare devi smontare tutte queste idee preesistenti.
Quindi tutti i giorni ci scontriamo con idee su cosa significhi essere un paziente raro, su cosa significhi avere una mutazione genetica, su cosa significhi convivere con una condizione genetica rara come nel nostro caso: Malan.
Comunicare bene è la prima grande competenza necessaria per creare consapevolezza su qualcosa su cui si sa poco.
Nel nostro caso, trattandosi di sindrome ultra-rara, ne stiamo ancora scoprendo le caratteristiche, le potenziali cure. Comunicare bene significa smontare vecchie idee mentre si stanno costruendo ancora quelle nuove.
Quando arriva una diagnosi c’è il senso di appartenenza. Finalmente. Dico finalmente perché spesso la diagnosi arriva dopo anni nei quali ci si sente non rari ma unici.
Unici perché non c’è nessun altro come noi. Non unici in quel senso ‘glam’ – essere esclusivo, ricercato, di gran valore. L’unicità per noi significa essere esclusi. Esclusi da qualsiasi gruppo, etichetta, o condizione conosciuta quindi è un’esclusione totale.
E allora quando si entra a far parte di una community di altre persone come te, di altre famiglie come la tua, nasce quel forte senso di appartenenza.
E tu pensi: finalmente ho capito chi sono.
Questo è il semino di identità per chi ha una malattia rara.
Essere una Advocate non è nient’altro che lavorare per aumentare questo senso di appartenenza e d’identità, per migliorare la qualità della vita di chi ne è affetto.
Rendere conosciuto qualcosa di raro, allontana sempre di più quell’essere ‘unico’ che esclude. E lo si può fare solo comunicando informazioni corrette e libere dal pregiudizio.”
Per approfondire
Searle, J., La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006.