Nicaragua – Era settembre 2003, e in occasione del mio primo viaggio in nel paese, mettevo piede per la prima volta alla Casona di Tangarà, sede di un progetto di cooperazione e salute sostenuto da associazioni locali e da un ONG italiana.
La Casona sorgeva in un’area periferica nella città di Leon, una delle città più importanti del paese, una zona impervia abitata da famiglie senza casa che arrivavano dalle campagne dopo aver perso le proprie terre. Qui sorgevano abitazioni di fortuna, baracche costruite in lamiera, senza accesso all’acqua potabile e all’elettricità, e senza fognature.
L’unica struttura in muratura era la “Casona”, un’oasi nel deserto, ufficialmente la casa del progetto: un luogo di ritrovo, di vita e di speranza. Una grande e gigantesca casa coloniale, resa agibile e talmente grande, da essere in grande di ospitare: due uffici, una stanza medica, una piccola biblioteca, una cucina per preparare pasti ai bimbi che frequentavano la piccola guarderia; due stanze polifunzionali dove fare incontri, formazione e compiti; due laboratori attrezzati per attività artigianali come la lavorazione del legno o la cucitura del cuoio.
Un enorme patio fresco con piante di fiori e banani, dove bimbi e adolescenti giocavano, si cimentavano nel teatro e nella danza, preparavano spettacoli con costumi fai da te.
E infine un grande campo per giocare a palla all’esterno, qualche altalena arrugginita, uno svincolo e tavolini di pietra colorati per disegnare.
Una grande casa punto di riferimento per la comunità, salvezza per quei bambini che sarebbero cresciuti in un luogo arido e facili prede per sfruttamento, dipendenze da droghe sintetiche o alcool. Un luogo di incontro dove trovare soluzione ai problemi, sede di diversi progetti di sviluppo ma anche casa di tutti coloro che dormivano sotto un tetto insicuro. Bastava infatti la prima pioggia di giugno a fare navigare nel fango tutte le case di plastica e lamiera.
In quegli anni di case di comunità come la Casona ce n’erano tantissime; luoghi dove andare a chiedere supporto, sostegno, confronto, amicizia.
La Casa del progetto: luogo di organizzazione comunitaria, pluralista e democratica
Alla Casona ci sono tornata nel 2007 con un ruolo attivo come cooperante del progetto e l’ho salutata, per l’ultima volta, l’ultima volta, nel 2009, convinta che sarei tornata nel giro di qualche anno.
Sono passati 12 anni anche nelle aree più remote del paese, laddove non c’era copertura di rete telefonica, e anche dove non ci sono ancora fognature e le strade sono insicure, la gente ha accesso a internet, comunica con videochiamate e posta foto sui social.
Anche qui è cambiato il modo di comunicare; le comunità si sono estese, disgregate, divise a causa dei problemi politici del paese.
Luoghi come la Casona o altre case che erano sedi di progetto di sviluppo locale hanno perso la loro funzione e molti non esistono più.
Dove si incontrano i giovani, le donne, dove giocano i bambini, dove si propongono i corsi di formazione?
Ne parliamo con Paolo, cooperante per 35 anni in Nicaragua, da due a El salvador a causa delle pressioni del governo verso le ONG che lo hanno costretto e lasciare il paese e seguire a distanza i progetti in Nicaragua.
“Per decenni le sedi fisiche dei progetti erano luoghi di inclusione sociale e di organizzazione comunitaria pluralista: lì si incontravano tutti, giovani, famiglie, anziani, bambini, erano lo spazio dedicato alla comunità organizzata, attiva e autogestita.
Tra gli obiettivi c’era quello di far crescere i bambini e i giovani in un ambiente ‘sano’. Avere un luogo dove organizzare attività sportive, seguire corsi e fare aggregazione è importantissimo; contrasta la dispersione scolastica e li tiene lontani dalla città, luogo di sfruttamento, alcool e droga. Cooperazione e salute era il binomio.
Un posto dove si vede dal vivo la costruzione di un’ organizzazione comunitaria pluralista, ovvero per tutte le fasce d’età e lontana dall’appartenenza politica o religiosa.
Le ideologie dei partiti restavano fuori, le religioni ammesse ma senza escludere nessuno: per benedire un raccolto erano bene accolte le preghiere cattoliche, quelle evangeliche o i semplici canti alla madre terra.
I fondi dei progetto di sviluppo sostenevano le spese vive e i materiali necessari, lasciando però spazio il più possibile alle dinamiche democratiche dal basso”.
La scuola al centro della comunità
A causa della pressione governativa questi centri oggi non esistono più, e i pochi rimasti non sono più laboratori di pluralismo e democrazia.
La data del 18 aprile 2018, ovvero il massacro di più di 300 manifestanti del movimento studentesco, ha segnato uno spartiacque nel paese. Molti cooperanti sono stati costretti a partire e l’Unione Europea ha bloccato i fondi per i progetti di sviluppo come segno di disapprovazione verso la gestione del governo.
“Oggi non ci sono più di progetti come quello della Casona di Tangarà, eppure le comunità non hanno perso quella dimensione, anzi, cercano sempre di più di ricostruirla e migliorarla” testimonia Paolo.
“Coloro che vent’anni fa erano bambini e adolescenti oggi sono genitori e riconoscono l’importanza di un luogo di aggregazione aperto a tutti, dove portare avanti progetti e organizzarsi per colmare le lacune del governo.
E quel luogo, in molte comunità rurali o quartieri di periferia del Nicaragua occidentale, oggi risiede nella scuola.
Abbiamo iniziato con un’esperienza pilota di “scuola inclusiva” come punto di riferimento quattro comunità rurali, e da allora si sta diffondendo questo modello. La scuola è diventata il centro di tutto: un luogo in cui vengono proposte attività trasversali, gli incontri di confronto tra i genitori, la formazione per tutte le età e anche la sede la sede dell’orto scolastico per insegnare ai bambini a prendersi cura della terra e auto-sostenersi secondo un modello sostenibile.
La scuola sta diventando il motore sociale del territorio in tutti i settori marginali della città, e ci si è resi conto che è necessario investire tutto in produzione sostenibile ed educazione.
L’idea di ‘scuola inclusiva’ in questa parte del mondo include una visione di diritto all’educazione per tutti, secondo una dinamica di inclusione che riguarda tutta la comunità.
Una visione in cui tutti gli attori sono coinvolti nell’educazione, ognuno con le proprie responsabilità, e anche i bambini hanno un ruolo attivo nella propria educazione.
Lì studiano ma allo stesso tempo imparano la matematica seguendo l’orto, la scienza grazie alle piante da frutta, l’ecologia creando il compost; imparano, insomma, a occuparsi del loro territorio”.
Economia sociale e solidale: i nuovi obiettivi di sviluppo
I fondi per sostenere le piccole comunità o quartieri periferici sono da poco terminati a causa dei delicati rapporti tra governo ed enti finanziatori, ma i progetti avviati proseguono a gonfie vele grazie al sostegno della comunità stessa e di attori locali.
Oggi, da El Salvador, Paolo continua ugualmente a seguire alcuni progetti di sviluppo indirizzati però alla formazione per giovani imprenditori.
Il focus è quello dell’economia sociale e solidale, ovvero della creazione di una rete tra giovani che hanno come obiettivo quello di sostenersi ma anche di far crescere l’intera comunità mettendo le persone al centro.
“Abbiamo iniziato a percorrere una strada molto interessante che sta dando ottimi risultati e rappresenta oggi un esempio da seguire anche in altri paesi.
Si tratta dell’unica strada percorribile oggi, per paesi come il Nicaragua, che hanno un tasso di crescita demografica altissimo e un’età media molto bassa. O si creano, in brevissimo tempo, le condizioni per creare per i giovani condizioni di lavoro accettabili, oppure si rischia un’ondata migratoria – come quella già in corso verso gli USA – di persone poco formate che andrebbero incontro a condizioni di sfruttamento, lontani dalla propria famiglia e senza contribuire al verso sviluppo del proprio paese.
Cosa significa, nella pratica, creare una rete di economia sociale e solidale? Faccio un esempio: una rete può essere costituita da uno giovane produttore specializzato in vacche da latte, uno in torte, uno prodizione di verdura e in sistemi di irrigazione, uno in comedor popular (ristorante con prezzi accessibili): si scambiano materie prime e prodotti finiti, creando un rapporto di fiducia e garantendo un prezzo giusto.
Una rete che funziona, perché si basa sulla solidarietà e cooperazione tra giovani imprenditori che in questo modo riescono ad autosostenersi e a non essere schiacciati dai costi delle materie prime imposte dalle grandi compagnie”.
Lavorare a distanza, lontano dalle relazioni umane
Nel 2021, a causa del Covid, delle situazioni politiche e del supporto di nuove tecnologie sono tanti i cooperanti che si sono ritrovati a gestire i progetti “da remoto”; una situazione impensabile, se pensiamo all’epoca in cui i progetti ruotavano intorno alla “casa della comunità” e la presenza, il monitoraggio, le relazioni erano alla base di tutto.
“Il modo di lavorare è cambiato radicalmente” spiega Paolo “le riunioni e gli incontri si fanno via skype e non più nelle case di comunità.
Ma devo ammettere che, quando a rete che hai sul territorio è forte e radicata, è facile trovare persone in grado di seguire le singole attività anche meglio di quello che sai fare tu.
Una volta concluso e rendicontato il finanziamento europeo, eravamo soliti lasciare ai partner locali, ovvero le associazioni o i movimenti, la gestione esclusiva del progetto.
Oggi questo processo è ancora più accelerato e da una parte credo sia un bene, perché la nuova generazione ha bisogno di sentirsi il più possibile protagonista del cambiamento.
Vedo grandi risultati anche se non sono presente; coloro che lavorano sul campo con i bambini, con i giovani o i contadini, hanno grandi capacità e devono godere di una giusta autonomia nella gestione del progetto.
Il mio ruolo oggi si riduce a un supporto che aiuta nella costruzione della rete, garantisce l’arrivo di fondi che servono alla formazione e rendiconta i risultati per i finanziatori.
Certo, mi manca molto festeggiare con i contadini l’inaugurazione di un nuovo sistema di irrigazione, magari con una parrilla (carne alla griglia) e un buon bicchiere; ma anche vedere i propri partner camminare con le proprie gambe senza alcuna consulenza è una grande soddisfazione, e credo sia questo il senso della cooperazione”.
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