Cosa vuol dire essere expat?

Gli expat vengono visti come persone con un alto livello di istruzione, che lavorano all’estero per grandi aziende, hanno buoni salari e frequentano ambienti internazionali. Le migrazioni però cambiano nel tempo e anche l’uso dei termini per descriverle.

I termini della migrazione sono molti e, spesso, poco chiari

Emigranti, emigrati, cervelli  in  fuga,  espatriati,  esiliati  (volontari  o  involontari),  neo-migranti, nuovi  migranti. 

Sono molte le parole che vengono utilizzate per riferirsi alle persone italiane all’estero – e non solo -. Tutte queste definizioni presentano somiglianze ma anche tratti non sovrapponibili. Nonostante sia chiaro il macrofenomeno a cui fanno riferimento – lo spostamento di persone da un paese all’altro -, nella maggior parte dei casi non sappiamo bene di chi stiamo parlando.

Questa confusione nei termini rimarca la ricchezza e polivalenza del campo semantico che si apre attorno allo spostamento verso l’estero di numerosi italiani e italiane. Questa confusione riflette le narrazioni che le persone, in particolare quelle italiane, fanno del  proprio percorso migratorio e di come questo venga visto e raccontato in Italia o comunque nei paesi di accoglienza. Esistono, infatti, due punti di vista principali quando si parla di migrazioni: da un lato, quello di chi osserva e racconta i flussi migratori adottando una prospettiva che viene spesso definita “etica”, in quanto richiede una scelta, una posizione che ad oggi è politica; dall’altro, quello di chi descrive la propria storia. A partire da questa considerazione, in Italia emerge una netta differenza tra chi è in una traiettoria di mobilità internazionale e chi, dall’Italia, osserva queste traiettorie, sia dei propri connazionali che di stranieri.

 

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Quando parliamo di expat a chi ci stiamo riferendo?

Attualmente, nel panorama informativo, la scelta appare piuttosto arbitraria. 

Dai report di Fondazione Migrantes ’14-’15-’16 emerge come differenti autori e autrici usino il termine expat con accezioni e significati differenti, il più delle volte senza offrirne una descrizione analitica. In generale l’uso del termine “expat” rimanda a persone giovani, caratterizzate da istruzione e tenore di vita elevati, in una situazione di mobilità temporanea. Anche nel giornalismo generalista parole differenti vengono spesso usate come sinonimi al fine di evitare ripetizioni, nonostante si riferiscano a fenomeni distinti. 

A chi ci riferiamo, quando parliamo di expat, dipende dal punto di vista che assumiamo. 

Nella letteratura che osserva il fenomeno, una prima definizione di expat, nell’utilizzo moderno e globalizzato del termine, è rintracciabile a inizio anni 2000, quando con “expat” ci si riferiva ad un lavoratore qualificato inviato all’estero dalla propria azienda, solitamente per un periodo di tempo limitato. Questa visione di expat sembra aver trovato riscontro anche negli anni seguenti, andando via via a tracciare una distinzione importante. Nel 2009, per esempio, è rintracciabile nella letteratura specifica una distinzione di percezione e uso tra “expat (volontari, spesso in mobilità per lavoro, e istruiti) e “migranti” (forzati all’emigrazione dalle scarse condizioni di vita). Nonostante “migranti” funzioni come termine ombrello, sembra che gli expat vengano percepiti come un sottogruppo specifico e non generalizzabile a tutte le persone che espatriano. Da numerose ricerche emerge, infatti, una differenza soprattutto di percezione di cosa significhi essere expat.

Essere o non essere expat può fare la differenza

Da un sondaggio condotto online su circa 500 persone italiane residenti all’estero si rende evidente, da un lato, lo scarso accordo sulla definizione del termine, mentre dall’altro si delinea un comune sentire rispetto ad una effettiva differenza, di carattere sociale, esistente tra gli italiani che risiedono in uno stesso paese estero. 

Rispetto all’uso specifico della parola expat molte italiane e italiani all’estero ritengono che il termine provenga e sia utilizzato in prevalenza sui social media; si tratta di un termine non auto-attribuito,  che però riconferma l’idea che il circuito di uso della parola “expat” definisca già di per sé tratti del gruppo a cui si riferisce, vale a dire un gruppo fortemente basato sul rapporto quotidiano e lavorativo con il digitale e la tecnologia.

Alla prova pratica, da una ricerca del 2017 sugli italiani residenti in Canada è emersa una profonda frattura tra quelli che vengono percepiti come expat e migranti dalla comunità italiana. Gli expat di Toronto infatti vengono visti come persone che si muovono in una rete sociale indipendente dall’origine etnica e che utilizzano molto il web, vivono una dimensione internazionale e utilizzano prevalentemente la lingua inglese.

Chi non si considera expat svolge generalmente mansioni meno qualificate, costruisce le proprie amicizie e fa affidamento su gruppi basati sulla comune identità italiana in cui l’uso dell’italiano è prediletto ed identitario. Si tratta di persone iscritte a gruppi Facebook che partecipano ad eventi connotati in senso etnico, apparentemente unite da un comune senso di marginalizzazione rispetto al contesto culturale canadese.

D’altro canto, per chi a Toronto si definisce expat questo termine non è mai sinonimo di migrante. La tendenza sembra essere quella di prendere le distanze dalle tradizionali connotazioni della migrante, sottolineando affermazioni indicative dell’auto-rappresentazione del gruppo di appartenenza, sempre più svincolato dall’origine etnica e costruito invece a partire da parametri sociali (riferimenti linguistici comuni, frequentare certi luoghi, consumare determinati contenuti multimediali, avere una comune e specifica scala di valori che determinano la visione del lavoro etc…).

Non tutti gli italiani all’estero la vedono allo stesso modo di quelli a Toronto. Sembra, piuttosto, che dal punto di vista generale delle italiane e italiani all’estero la parola “expat” sia molto più vicina al termine “espatriato” e abbia quindi una minor connotazione sociale

Una possibile spiegazione della maggior connotazione del termine “expat” appare se si osservano i luoghi e le motivazioni di migrazione. Nella ricerca sull’uso del termine in italiano emerge, infatti, come sia presente una percezione duplice di migrazione: da un lato uno spostamento in cerca di un surplus rispetto ad una condizione sociale e lavorativa già favorevole in partenza e, dall’altro, una spinta alla mobilità internazionale forzata da condizioni di indigenza economica o difficoltà sociali. 

Una definizione più utile a chi guarda

Una nuova parola, una nuova attribuzione che veicola la personalizzazione del processo migratorio ma anche, paradossalmente, incoraggia un’apparente minore integrazione con la popolazione locale, verso cui sembra trasparire uno scarso interesse. Si tratta di un processo di pancia, di percezione emotiva e di affermazione sociale.

Chi si identifica nella definizione di expat è concorde sul fatto che questo gruppo dimostri una minore propensione a cercare integrazione: l’impressione che molte hanno è infatti che alle persone expat, al contrario di migranti, sembra non venire richiesto uno sforzo di integrazione culturale. Allo stesso modo, le prime vivono la propria condizione come maggiormente temporanea, frequentano circuiti sociali di provenienza internazionale e usano l’inglese come principale lingua per l’interazione sociale. Anche per questo gli e le expat sembrerebbero meno inclini all’integrazione con la cultura del paese in cui si ritrovano. Il termine “espatrio” è spesso legato all’idea di gruppi chiusi, piccole enclavi culturali all’estero. Oggi diremmo “bolle”.

Nonostante questa tendenza, è necessario tenere presente che, quando si parla di migrazioni, si guarda a fenomeni che, sia quando si protraggono per molti anni che quando cambiano rapidamente, sono in costante evoluzione e trasformazione. Parlare di migrazioni, quindi, prevede l‘uso di parole in un certo senso provvisorie, che ritraggono scorci della società nel momento in cui emergono e vengono usate. 

Molte delle persone italiane che vivono direttamente la migrazione sentono forte il senso di auto-determinazione e appartenenza e, allo stesso tempo, si oppongono a semplificazioni classificatorie che sembrano essere più utili a chi li osserva da lontano che non a sentirsi un vero gruppo.

Emerge così l’esigenza, per chi lavora in questo ambito, ma non solo, di assumere costantemente differenti angolazioni attraverso cui guardare e descrivere i fenomeni migratori e le persone migranti e migrate.

Note e link esterni

Di Salvo, M. (2017). Expat, espatriati, migranti: conflitti semantici e identitari. Studi Emigrazione, 54(207).


Gatti, E. (2009). Defining the Expat: the case of high-skilled migrants in Brussels. Brussels Studies. doi: 10.4000/brussels.681


Romero, E. J. (2002). The effect of expatriate training on expatriate effectiveness. Journal of Management Research, 2(2), 73–78.

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