Diversità culturale
Il 21 maggio ricorre la giornata mondiale della diversità culturale. Istituita dall’Onu nel 2003, fa seguito alla Dichiarazione Universale dell’Unesco sulla diversità culturale.
All’articolo 1 si legge che la diversità culturale è, per il genere umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita. In tal senso, continua, è patrimonio comune di tutte le generazioni, presenti e future, e deve per questo essere riconosciuta.
L’idea implicita in queste affermazioni è relativa al potere potenzialmente generativo della diversità culturale e del contatto tra culture differenti. Un’idea che, in astratto, può convincerci, evocando quasi un senso di bellezza. Pensare a cosa succeda concretamente nella pratica quotidiana, invece, instilla il seme del dubbio. È molto più probabile, infatti, che il contatto tra diversità culturali sia all’origine di processi conflittuali e distruttivi. Ciò può essere vero nel caso delle relazioni personali, ma anche a livelli di carattere più macro.
Saltando nell’attualità
Solo per fare riferimento all’attualità, a questa conclusione si può arrivare se pensiamo a quanto sta succedendo in questi giorni in relazione al conflitto israelo-palestinese. I numeri dei morti e dei feriti, oltre che le immagini di distruzione, continuano a moltiplicarsi. Purtroppo, sono l’esito di una escalation di tensione che ha avuto spesso la città di Gerusalemme come teatro.
Città sacra per le tre principali religioni monoteiste, Gerusalemme sembra accogliere in pieno il potenziale distruttivo delle zone di contatto più che quello generativo. Contesa da israeliani e palestinesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, ospita il muro del pianto e la Cupola della roccia. Il primo è ciò che resta del Tempio Santo, il luogo più sacro per gli ebrei; la seconda svetta al centro della Spianata delle Moschee. Gerusalemme ospita anche la Chiesa del Santo Sepolcro, basilica fondamentale per la cristianità, le cui chiavi sono custodite da due famiglie musulmane.
Tutti questi luoghi sacri occupano un’area di circa un chilometro quadrato di tolleranza reciproca non sempre rilevabile. Senza considerare che Gerusalemme è anche contesa come capitale del proprio stato sia dagli israeliani che dai palestinesi.
Nella storia travagliata di Gerusalemme, alcuni anni sono stati cruciali. Nel 1948, conclusa la Seconda guerra mondiale, la città è stata suddivisa. A seguito di ciò, i territori ad est sono palestinesi, quelli ad ovest israeliani. Nel 1967, Israele vince la Guerra dei sei giorni e, oltre a conquistare l’odierna Cisgiordania, comincia ad occupare militarmente molti territori ad est di Gerusalemme.
È in questo frangente che viene costruito un muro che separa la città dal resto della Cisgiordania. In questo scenario, agli abitanti arabi di Gerusalemme viene riconosciuta una sorta di residenza permanente ma non la cittadinanza israeliana. Da qui il vissuto di essere dei cittadini di serie B, contrastato dagli israeliani che parlano, invece, di un’appartenenza piena allo Stato di Israele.
Ma torniamo a quanto sta succedendo in questi giorni, a Gerusalemme e negli altri territori interessati dal conflitto. Alcuni episodi sono sicuramente stati all’origine dell’esplosione della guerra di questo maggio, come riportato da numerose testate giornalistiche*. Quasi tutti hanno al centro la diversità religiosa, in senso lato, culturale. Tutti hanno coinvolto zone di contatto tra diversità.
Intanto, gli sgomberi forzati del quartiere Sheikh Jarrad a Gerusalemme Est, episodio che trova fondamento nelle leggi varate all’indomani della nakba, la catastrofe del 1948.
Il video pubblicato su TikTok che mostra un giovane palestinese mentre schiaffeggia un coetaneo ebreo ultraortodosso. Il cambiamento delle regole di ingresso alla porta di Damasco, particolarmente frequentata nel mese sacro di Ramadan. L’irruzione della polizia israeliana nella Moschea di Aqsa per tagliare i cavi degli altoparlanti dei minareti.
Leggere quanto ho scritto, non restituisce certo complessità a una questione che ha avuto numerosi altri punti di svolta, quasi sempre dolorosi. Mettere in fila gli episodi individuati come cause scatenanti, poi, rende evidente che l’escalation di violenza che stiamo registrando è scaturita da “pretesti”. Da una serie di sottili atti vessatori che hanno fatto da detonatore per una situazione già tesa.
In questi giorni, comunque, mi sembra di essere di fronte ad una escalation di distruttività differente dalle precedenti. Come se si trattasse di una crisi diversa dalle altre ed alcuni equilibri potessero rompersi per sempre. Non che l’equilibrio instabile che abbiamo conosciuto fino ad ora costituisse una prospettiva serena.
Sulla base di una conoscenza degli assetti geopolitici in gioco ben più approfondita, la stessa impressione è condivisa da Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica (“Tre sorprese dietro l’escalation di Gaza” – la Repubblica). Molinari vede infatti tre novità in questa crisi.
La prima è che Hamas ha sferrato un attacco alle truppe israeliane molto più efficace dei precedenti, capace di penetrare le difese antiaeree di Israele. La seconda è relativa al livello di conflittualità tra arabi ed ebrei in alcuni territori in cui sembra essere compromessa ogni possibilità di convivenza pacifica. La terza, infine, focalizza il ruolo di sostegno di Erdogan ad Hamas.
Sostando nei grigi
Mi sorprendo a pensare come senta parlare del conflitto israelo-palestinese praticamente da sempre. In sostanza, da quando ho la capacità di capire e ricordare cose così complesse. Orientarsi nella complessità di una questione altamente divisiva, tra l’altro, non è più semplice adesso che l’accesso all’informazione in tempo reale è più immediato. Non aiuta nemmeno comprendere che è necessario guardare alle ragioni degli uni e degli altri, al di là dell’adesione alla causa israeliana o palestinese.
Per una Maggie Khozam che, da araba, grida al mondo che gli israeliani non hanno compiuto nessun abuso, c’è una Ruba Saleh che racconta di corpi traumatizzati dalla nakba. Oppure i giovani ebrei italiani e la loro dichiarazione not in our names.
Il conflitto israelo-palestinese, insomma, interroga e costringe a sostare nei grigi, in quelle aree di comprensione dove qualcosa continua sempre a sfuggire. In effetti, le questioni storiche, religiose e socio-economiche che sostanziano decenni di conflitto sono complesse.
Quasi mai è possibile separare il bianco dal nero. In questo caso, forse, è perfino più complicato del solito. Lo è se diversi ebrei parlano di “guerra sionista” o protestano ricordando di non essere sopravvissuti ad Auschwitz per sganciare bombe su Gaza. Come a dire che una ferita, anche se è la più profonda e dolorosa, non si può sanare provocandone delle altre. A sanarla, forse, è stata la parola parlata e condivisa.
Narrarsi le ferite
In questi giorni, in effetti, a colpirmi sono state soprattutto le voci ebree fuori dal coro (“Not in our names”, la lettera dei giovani ebrei italiani | il manifesto). Un movimento che mi ha fatto pensare a quanto le religioni, elementi chiave della cultura dei gruppi, siano state frequentemente vessilli dei traumi collettivi. Quali siano poi le dimensioni che hanno sostanziato questi vessilli è una questione aperta ma correlata.
Credo che pensare al costrutto di trauma, sia un tentativo di spostarmi su terreni meno sdrucciolevoli, su questioni che conosco. Questioni dolorose che hanno a che fare con le dimensioni geopolitiche della sofferenza psichica.
Seppure individuale e soggettiva, quando origina da questioni che coinvolgono gruppi individuati sulla base di differenze, la sofferenza ha sempre delle implicazioni collettive.
Se le voci discordanti sono soprattutto quelle dei giovani ebrei, probabilmente una narrazione collettiva di diaspora e olocausto ha facilitato il superamento del trauma, anche nelle sue declinazioni individuali. A un livello diverso, ha facilitato anche l’interruzione dell’eredità dei traumi, se è ormai noto che esiste una loro dimensione transgenerazionale.
Per esempio, nelle famiglie dei sopravvissuti ai campi di sterminio, molto spesso il malessere si è annidato nel silenzio alimentato dalla vergogna. Ritrovare possibilità di parola che restituissero una narrazione delle sofferenze e delle ingiustizie subite, quindi, ha aiutato i processi di superamento del trauma. E anche quando è stato fatto nelle arene private quali le psicoterapie, trattare le dimensioni collettive è stato cruciale.
Un simile processo sta coinvolgendo anche le nuove generazioni di palestinesi?
A sentire la già citata Ruba Saleh, si è ancora ben lontani da un simile traguardo. La storia della nakba, dell’intifada, della Grande Marcia del Ritorno sono ancora lontane dall’essere narrate da chi, secondo l’antropologa, ha una posizione troppo minoritaria.
A narrare non è mai la parola palestinese, ma altre parole. In un contesto globale in cui le narrazioni più accreditate sono quelle di chi continua ad avere una posizione dominante.
Voci dal terreno
In questi anni ho conosciuto diversi colleghi impegnati nei territori israelo-palestinesi come operatori umanitari. I loro racconti parlano di un trauma che, più che passato, è cronico. Al di là delle dimensioni transgenerazionali di ciò che è successo nei decenni, cioè, si dovrebbe considerare la traumaticità di una situazione ancora in essere (La sofferenza psicologica dei bambini di Gaza – Il Trattato).
Elevati livelli di disoccupazione, malnutrizione, scarsità di servizi, difficoltà di accesso alle cure e carenze di risorse sono solo alcuni dei problemi comuni nei territori. Molti bambini hanno perso i genitori o sono stati esposti ad incidenti traumatici che li hanno danneggiati in maniera diretta.
Inutile dire, poi, che crescere in un contesto di guerra comporta l’esposizione a uno stress cronico che ha inevitabilmente un impatto sulla salute psicofisica. Non a caso, diffusa è la dipendenza da tramadol, un antidolorifico comunemente usato per ridurre il dolore degli animali.
Si tratta di problematiche attenzionate da diversi programmi di intervento che hanno come focus la salute mentale nei territori israelo-palestinese. Sullo sfondo di una quasi iper-attività delle organizzazioni non governative, la quasi inerzia dei governi e delle forze internazionali.
La domanda che emerge di fronte al quadro catastrofico appena descritto è se sul serio non si possa interrompere questa catena di violenza. Se sul serio non importi a nessuno mettere un punto a una situazione che si protrae da fin troppo tempo. A una storia rispetto alla quale il senso, o la possibilità di costruirne uno, sembrano del tutto fallire.
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Per approfondire
*Un mese di violenze, dalle strade di Gerusalemme ai cieli di Gaza – Pierre Haski – Internazionale
From TikTok to Temple Mount clashes: 28 days of violence in Jerusalem – Israel News – Haaretz.com
Sulla questione dell’olocausto e il trauma transgenerazionale
Zajde N. (2002). I figli dei sopravvissuti. Bergamo: Moretti&Vitali.
Per i cinefili
The present (2020) di Farash Nabulsi.
Jaffa (2009) di Karen Yedaya.
Il figlio dell’altra (2021) di Lorraine Lévy.
Per gli amanti della storia
I podcast di Focus Storia su Spotify dedicati al conflitto israelo-palestinese