Espatrio (Expat?)
Espatrio è il passaggio oltre il confine, è il tragitto dalla madrepatria al paese estero, è un viaggio con obiettivi e desideri precisi. Si tratta di andare via verso una meta definita, andare da un qui ad un altrove, verso un luogo da abitare stabilmente o temporaneamente.
Che cosa evoca dal punto di vista psicologico essere espatriato?
Quando si pensa alla parola expat, e in particolare expat italiano, vengono alla mente soprattutto alcuni spunti: patria, confini, exit, precarietà.
Exit: “vado fuori”, “esco dalla mia Patria”. Si tratta di una tematica trasversale a soggetti espatriati e spesso riportata dalle persone alla ricerca di un supporto psicologico.
Precarietà: sottolinea la differenza tra diverse forme di precarietà. Da un lato, una precarietà che fa paura, per esempio quella che coinvolge i lavoratori in Italia e che, come un’ombra inquietante, rabbuia il discorso circa l’espatrio. Dall’altro, un’idea di precarietà, specialmente fuori dall’Italia, in cui sembra preminente la prospettiva di un cambiamento intrigante, positivo, creativo. Dal punto di vista psicologico questa precarietà trasmette l’idea di cambiamento di stato, richiama il concetto del viaggio.
Confini: quali sono i miei confini e cosa posso portare con me quando viaggio tra il dentro e il fuori? Nei gruppi di persone giunte in Italia da altri paesi questa soglia, che è il confine, emerge e si manifesta in modi anche impensabili, attraverso parole ed espressione corporea, artistica, immaginale. La madrepatria come punto di partenza e immagine nostalgica si apre a un’identità più terrestre, come suggerisce Edgar Morin, solo con il tempo e attraverso un costante processo di attenzione cosciente.
Expat ed emigrati vengono percepiti in modi differenti
Una percezione comune è che il concetto di precarietà si riallacci all’espatrio, perché expat vuol dire “persona residente in un paese straniero”. È un concetto che appare differente da quelli di emigrato/immigrato, due termini che in Italia, storicamente e collettivamente, sono associati all’andare via, verso un paese lontano per aspetti di povertà economica ed educativa. Expat, come termine inglese, rimanda a “colui/colei che va a lavorare all’estero, spesso tramite sponsorizzazioni aziendali, perché segue un percorso professionale o di studi proprio o del coniuge, o, se si tratta di bambini, dei genitori.”
Nel suo Blog “La deriva dei continenti”, la semiologa expat Francesca Romagnoli individua l’origine del termine “expat” nel gergo professionale anglosassone, dopo che lo stesso si è trasformato, e in particolare nella parola expatriate – il residente in un paese straniero perché esiliato o bandito dal proprio paese. Inoltre, sottolinea la generalizzazione dello stesso termine a definire non solo il lavoratore trasferito (relocated) dall’azienda in un paese straniero, ma anche tutti coloro che si spostano con qualche attività in programma. Dal punto di vista del contratto e della carriera lavorativa, l’uso di uno o dell’altro termine implica una differenza enorme: l’essere assunto sotto expat terms oppure local terms si misura in prestigio e denaro. Se l’azienda manda all’estero un dipendente con un contratto da expat, questo guadagnerà molto più di quello che guadagnava nel paese in cui era assunto come locale, proprio per indennizzare la non necessaria volontà di scelta.
Expat, Foreign Professional, Allochtoon, Digital nomad e così via… I concetti differiscono ulteriormente riferendosi a gruppi o tipologie di persone specifiche: chi cerca fortuna come laureato all’estero, qualcuno che ha almeno un genitore straniero, professionisti e professioniste di un settore specifico ad elevata mobilità internazionale o che prendono parte ad un particolare fenomeno storico. Non soltanto: spesso la parola expat viene utilizzata come contenitore di sottocategorie come silver expat, expat-preneur etc…
A prescindere dalla definizione, si vivono dinamiche psicologiche comuni
Il desiderio narrato dalle persone all’estero e raccolto dall’esperienza clinica di Transiti parla spesso della volontà di continuare altrove ciò che è nato e si è abbozzato in famiglia, a scuola, nel contesto della socializzazione primaria e secondaria in Italia. Che sia un desiderio trasmesso dall’ambiente familiare o del tutto autonomo nella persona che espatria, c’è comunque il richiamo a una realizzazione altrove – a distanza – rispetto alle origini.
Tuttavia, chi è distante dal proprio paese di origine, che si consideri expat oppure migrante, condivide il vissuto di non essere entrato del tutto nel paese, nella cultura, nel nuovo contesto. Spesso resta, nelle persone, una parte di desiderio o la necessità di definirsi “non radicati” nel paese di accoglienza.
Coloro che rimangono in Italia associano i figli, i parenti e gli amici professionisti che operano fuori nazione a elementi di prestigio che, tuttavia, non sempre corrispondono al senso di inadeguatezza che potrebbe invece vivere una persona all’estero. L’identità all’estero oscilla per chiunque tra italiano e straniero, talvolta in contesti alieni, altre volte attraverso il riconoscersi in nuovi gruppi specifici; ad esempio, chi studia o lavora in ambito universitario all’estero è “straniero tra stranieri”. Così si è simili, vicini perché si condivide un’appartenenza al transito.
Serena P. quest’anno festeggia otto anni a Parigi. Nel suo caso, l’espatrio non è stato un progetto per il quale si era messa a tavolino o con il quale aveva fatto bene i conti: piuttosto, è arrivato quasi come un regalo, perché lei aveva scelto una meta temporanea, ma il soggiorno si è trasformato in altro, e tutto è accaduto in modo rocambolesco!
Serena era andata a Parigi per restarci solo tre mesi, e invece… L’idea iniziale di questa giovane professionista era tornare in Italia per frequentare l’università. Giunta nella Ville Lumière, si è incuriosita: “E se studiassi qui?” – è così, una cosa tira l’altra, ha provato a iscriversi all’università. In due mesi si è preparata, la lingua francese non è stata un problema, e la giovane ha raggiunto il livello C1; quando ha saputo di aver superato l’esame era settembre. Da studentessa di lingue, Serena è diventata universitaria parigina.
“Lasciare che la vita faccia il suo corso”, è questa la sfida esistenziale che suggerisce: “per me alcune cose vanno pianificate ma per altre bisogna lasciarsi la libertà di non pianificare, permettendo che le cose si facciano, esistano, arrivino.”
Esistono moltissimi modi di trovarsi in una traiettoria d’espatrio, tanti quante sono le persone che si muovono. Lungo il processo di costruzione di un’identità nuova in un’altra cultura ciascuno sceglie per sé i termini che più sente rappresentativi, come nel caso di Serena, che vive la sua traiettoria come un processo organico e un po’ improvvisato.
Note e link esterni
“Cosa (non) è un expat”, di Francesca Romagnoli.
“Perché expat, perché immigrato”, di Nicola Bozzi.