Prima di valutare di sperimentare un’esperienza expat a Dubai, Giorgia era profondamente insoddisfatta delle opportunità professionale in Italia. “Mi sono formata come graphic designer” racconta “e da qualche anno lavoravo in Italia. La mia attività purtroppo non è mai stata piacevole. I contratti erano in forma co.co.co. e mi sentivo sfruttata ogni giorno. L’ambiente di lavoro non favoriva né lo sviluppo professionale né quello personale; dal mio punto di vista è sempre stato sofferto.”
All’epoca, Giorgia e Paolo, il suo ragazzo, avevano in mente di acquistare un appartamento e di andare a convivere. Sul finire del 2002 Paolo ha ricevuto un’offerta di lavoro molto importante per gli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Giorgia coglie la palla al balzo: era l’occasione per imparare una nuova lingua e fare nuove esperienze.
La coppia prenota una vacanza per gli EAU con l’intento di sondare il territorio e capire se quella destinazione potesse essere una scelta consona ai loro bisogni.
Decidono di sposarsi per ovviare ad alcune difficoltà burocratiche (e di costume) che comporta la vita in un paese come gli EAU. Giorgia parte senza nessuna offerta di lavoro e con una conoscenza dell’inglese non proprio ‘da accademia ma pronta a lavorare a Dubai’.
Essere donna expat: un vantaggio
“Dalla nostra parte c’era l’intraprendenza” racconta Giorgia “Aver vissuto un’avventura di questo tipo come donna è stato incredibile. Il fatto di essere una donna che nel 2003 si affaccia in quel mondo, che ai tempi erano paesi di frontiera, è stata un’esperienza piuttosto ambivalente. Fisicamente, sono quel che si dice europea caucasica e ho notato che la mia presenza risultava piacevole nell’ambiente di lavoro.
Gli emiratini sono degli esteti, e la mia esoticità ha sicuramente favorito l’ingresso e la crescita nel mondo del lavoro. Basti pensare che ho trovato lavoro senza una buona padronanza della lingua inglese, dopo solo due mesi che ero lì, per una delle agenzie pubblicitarie più famose al mondo.
Sapevo disegnare bene, avevo un mio stile, ma sicuramente la fisicità è stata un vantaggio da questo punto di vista. Tuttavia anche gli aspetti negativi dell’essere una expat a Dubai non mancavano.
Il maschilismo, anche in certi ambienti se celato, è un fatto. Una volta che ti inserisci in un determinato ambiente e impari a coglierne le sfumature, te ne accorgi subito. Inoltre, c’era molta competitività; io non ero abituata a tutta quella aggressività, per esempio da parte di persone che appositamente mi parlavano in arabo, con fare dominante, come a dire… tu ora stai zitta”.
La solitudine di expat e un lavoro che assorbe la vita
In quel periodo, la vita privata di Giorgia non era tutta rose e fiori. I ritmi di lavoro e le aspettative di risultato imponevano sia a lei che a Paolo assenze prolungate.
“In certi periodi era un po’ come se fossimo da soli in tutto e per tutto. Io e mio marito ci vedevamo poco a causa delle commesse che i nostri lavori imponevano.
Ai tempi eravamo gli unici così giovani. All’inizio ho pianto tanto al telefono con i miei cari. Eravamo completamente immersi nei nostri reciproci impegni.
I capi ti dicevano di fare una cosa; non la sai fare? Ti arrangi, inventi una strategia e la risolvi. Se facevi parte di quell’azienda era scontato che tu rimanessi completamente a disposizione. In qualche modo questo ha pesato sulla nostra emotività, ma non abbiamo mollato e questo in fondo ci ha ripagato; ci siamo guadagnati il rispetto delle persone, la soddisfazione anche personale. Ho scoperto degli aspetti di me stessa che non immaginavo esistessero”.
La crescita professionale che costa fatica
In pochi mesi Giorgia passa dal ruolo di grafica a contratto co.co.co al ricoprire la carica di direttore creativo di un’importante istituto.
“Spesso mi chiedevo, ma come è stato possibile tutto ciò? Mi sono trovata a lottare in un ambiente tanto competitivo e ho iniziato a sperimentare sulla mia pelle le relazioni in una cultura così diversa dalla mia. Ho dovuto imparare a modulare i miei comportamenti abituali sul lavoro: capire quando far valere la mia posizione e assumere un atteggiamento direttivo e quando invece tacere e ingoiare il rospo. Questa è stata una cosa difficilissima: mandar giù in silenzio delle vere umiliazioni.”
Giorgia si trova immersa in un ambiente nel quale una donna che occupa un ruolo dirigenziale deve affrontarne le ricadute culturali e giustificare costantemente con i fatti la propria posizione.
“Se reagivo rischiavo di perdere il lavoro, se non reagivo rischiavo di perderlo comunque perché mi poteva essere recriminato il fatto di non aver saputo gestire la situazione. A volte la mente è davvero contorta. Ogni cosa può essere usata contro di te.
Mi sono trovata spesso in queste situazioni ma, nonostante le mille difficoltà, devo dire che lavorare anche come expat a Dubai è stata un’esperienza immensa e io sono riuscita a gestirla. Quello era un paese di frontiera nel quale ogni attore implicato nel gioco era uno squalo; per mantenere il proprio lavoro si lottava tutti contro tutti. Mentre racconto queste cose mi viene da dire che oggi sono molto orgogliosa di quello che ho fatto di me stessa”.
Verso una nuova direzione
Giorgia e Paolo rimangono negli EAU per quasi dieci anni. Poi arriva il momento di partire.
“Mio marito ha ricevuto un’offerta di lavoro che ci avrebbe portati in Asia. Non volevo lasciare gli EAU perché là, anche se expat, mi sentivo a casa mia.
C’è stato un particolare che ci ha portati alla decisione. La crisi del 2008. Pensammo che inserirci in un altro contesto avrebbe reso più versatili le nostre capacità professionali ed è stata la cosa migliore che potevamo fare per noi stessi.”
In quel periodo, a pesare sulla loro condizione di expat c’era anche la difficoltà ad avere un figlio, un fatto che sulla coppia, come sulle individualità, cominciava a pesare.
“Ci siamo detti: cambiamo aria! Ho cercato una clinica nella nuova città in Asia e, dopo molti tentativi falliti, e con tutti gli aspetti emotivi del caso, trovai il posto giusto e il risultato è che adesso abbiamo un figlio di sei anni, Nicola. E questa è la cosa più importante.”
A causa del percorso di fecondazione, Giorgia ha abbandonato il lavoro per seguire dei protocolli molto rigidi, in modo da massimizzare l’efficacia delle terapie a cui si stava sottoponendo. “Per non impazzire mi sono messa ad imparare a cucinare e a dipingere.”
Attualmente, Giorgia sta tentando di reinserirsi nel mondo del lavoro ma le normative presenti nella sua nuova città in tema di lavoratori stranieri, unite al lungo periodo di distacco dall’attività professionale, rendono difficile e macchinosa la sua ricerca. Nel frattempo, Nicola è stato colpito da una malattia rara che ha richiesto cure particolari e che ha messo a rischio la sua vita. Così racconta Giorgia, che non si è fatta frenare dalla paura e dallo spaesamento del ritrovarsi nuovamente expat in un paese sconosciuto.
“Quanto è accaduto è stato per me un colpo duro. Mio marito doveva stare fuori più giorni per lavoro e ad un tratto al bambino è salita una febbre altissima. Sono corsa a cercare un dottore, sono entrata in una clinica trovandomi di fronte a varie difficoltà relative a documenti e assicurazioni.
Io ero da sola e i medici non sapevano di cosa si potesse trattare. Ero sicura che non avrei fatto la cosa giusta a lasciarlo lì. Ho deciso di trasferirlo in un’altra clinica.
Qui, fortunatamente, un medico è riuscito a diagnosticare la malattia di mio figlio. Appena in tempo, “mi ha detto: Il bambino non avrà grossi problemi in futuro e questo è stato possibile grazie alla sua determinazione. Questi sono momenti che una persona si porterà sempre dietro”.
Il sostegno della rete italiana
I rapporti che ha avuto con le comunità expat italiane nei due paesi hanno mostrato delle differenze. Negli Emirati erano giovani e con alcune persone si sono mantenuti in forte contatto per tutto il periodo passato lì.
Dove si trovano ora, Giorgia non ha avuto sempre un buon rapporto con il resto della comunità. In alcuni casi si è sentita abbandonata da alcuni gruppi che ha cominciato a frequentare.
“Ho la sensazione che più un paese sia ricco e vizia i suoi ospiti e più la comunità expat è superficiale nelle relazioni che si instaurano al suo interno ed è anche più individualista e arrivista. Più un paese è umile o in condizioni di difficoltà e più si crea una situazione di necessità che porta le minoranze ad essere più vicini gli uni agli altri.”
“Io mi sento profondamente italiana, ma sono felice di essermi potuta esporre per capire cosa sono le altre culture e cosa è davvero questo mondo. La cosa paradossale è stata che più lontano sono andata e mi sono immersa cercando di conoscere e di capire gli altri, più sono riuscita a conoscere meglio me stessa.
Oggi non tornerei in Italia. Non mi aspetto lì un futuro per mio figlio. Io lo vorrei un cittadino del mondo che sappia sì da dove proviene, ma che sia in grado di potersi fare strada ovunque vada.”