Nell’immaginario collettivo gli Stati Uniti sono il posto dove tutto è possibile. Quel luogo della Terra che promette a tutti almeno una chance per realizzare i propri sogni. Ma è davvero così, oppure, per quanto si possa essere preparati e pieni di speranze, la realtà per gli expat in USA è più difficile e complessa di quello che si pensa?
Ester Gherzi vive negli Stati Uniti da sei anni. Inizialmente ha frequentato il college a San Diego e poi ha conseguito un master alla Columbia University in Social Work.
SI tratta di una professione molto simile ai servizi sociali italiani, che si basa sulla promozione del cambiamento e dello sviluppo sociale, la coesione sociale, il potenziamento e la liberazione delle persone.
I principi sono quelli di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle diversità.
Lo scopo quello di aiutare le persone ad affrontare le sfide della vita e migliorare il benessere dei singoli, e quindi della collettività.
Una vita da expat dalle radici profonde
La vita da expat negli Stati Uniti di Ester inizia molto prima dei suoi studi universitari; il suo rapporto con gli USA, infatti, risale alla sua infanzia.
“Da sempre ho un piede in Italia e uno negli USA, avendo vissuto, da bambina, alcuni anni in California dove poi sono tornata quasi tutte le estati successive, principalmente per il lavoro dei miei genitori.”
Sono proprio quei primi anni a lasciare in lei un segno indelebile. Gli USA entrano a far parte della sua identità, tanto che, appunto, Ester sceglierà di passare gli anni del college nella stessa città, San Diego, in cui ha vissuto quando era una piccola expat.
“È diventato quasi automatico per me volere andare al college in America. Non ne ero conscia allora ma, ad un certo punto, ho sentito una spinta e un desiderio di vivere appieno quella parte della mia identità che si sentiva più a suo agio in America.”
Un trasferimento non semplice
Nonostante Ester conoscesse bene gli Stati Uniti e avesse già una certa familiarità con i suoi sistemi di accoglienza e i suoi stili di vita – parecchio differenti dal modello italiano ed europeo – il trasferimento e il suo successivo adattamento non sono stati per nulla semplici e indolori, anzi.
“So bene che la mia condizione di expat è privilegiata rispetto a quella di molti altri immigrati, ma anche per me, che già conoscevo gli USA piuttosto bene e che mi ero trasferita lì per vivere il mio sogno, ci sono stati quei tipici elementi di culture shock. Dall’adattarmi a sistemi e metodi di istruzione completamenti diversi da quelli italiani, al dover abituarmi a nuovi modi di intraprendere e capire i rapporti con chi mi circonda, per non parlare degli ostacoli pratici e burocratici sono poi quelli che mi hanno appesantito di più.”
Gli ostacoli di cui parla Ester possono essere veramente frustranti, non solo da un punto di vista psicologico ma anche più propriamente concreto, poiché possono davvero compromettere la permanenza di una persona nel Paese. Quando sei uno studente e hai il tuo visto in regola, non hai nessun tipo di problema, ma quando ottieni il titolo universitario e il tuo visto da studente scade, iniziano le vere difficoltà.
Ester non aveva solo il desiderio di studiare in USA, ma il suo sogno era quello di progettare e costruire lì la propria esistenza, il proprio percorso di studi, la carriera, le relazioni.
“In questo ultimo anno mi sono trovata spesso a dire: questa forse è davvero la prima volta in cui mi sento una vera immigrata.”
“In America, dal momento in cui non si ha più un visto da studente, il percorso si fa più difficile. Essere un immigrato è spesso una preoccupazione per il datore di lavoro che dovrà sobbarcarsi un maggiore investimento di tempo e denaro rispetto a quello richiesto da un candidato americano.”
“Aver sentito un paio di ‘no’, seguiti da, ‘saresti un’ottima candidata ma non possiamo assumere persone con il tuo tipo di visto’ è stato sicuramente difficile da ingoiare. Anche se devo ammettere che questa è un’esperienza che varia molto in base al campo di lavoro.”
Dedicarsi all’altro da sé con il social work
Il lavoro di Ester, come abbiamo accennato, è nell’ambito del social work. Inizialmente vedeva il suo futuro nel campo della biologia, ma a un certo punto qualcosa è cambiato.
“Dopo un paio di anni di college, mi sono resa conto che quello che mi interessa e appassiona di più è capire come mai le persone pensano e agiscono in un certo modo. Nel momento in cui mi sono addentrata un po’ nella psicologia e nella sociologia, è diventato chiaro come le nostre difficoltà vengano da come siamo cresciuti, dalla società in cui viviamo e dai rapporti che intraprendiamo.”
“La maggior parte di questi fattori sono indipendenti da noi, e mi sono resa conto di voler accompagnare nei loro percorsi di vita persone che sentono di non avere controllo su certi aspetti della loro vita (o magari sulla vita intera) o che non l’hanno avuto nel passato.”
Uno dei suoi primi lavori legati proprio all’aiuto delle persone in difficoltà è stato come volontaria di una hotline di prevenzione al suicidio di New York.
“Ho deciso di diventare una volontaria un po’ per caso ma è un’esperienza che continua ad arrichirmi. Sicuramente ho imparato che cosa voglia dire ascoltare, ascoltare davvero, e non giudicare,” ci spiega.
“Alla hotline abbiamo pochissime informazioni su chi ci sta chiamando – solo la voce e il contenuto della loro storia – per cui il nostro ruolo è solo quello di ascoltare, e validare i sentimenti e le esperienze di chi ci chiama. Niente consigli, niente deviazioni, niente opinioni. Tutte cose che cerco ora di portare con me nei miei rapporti.”
“Questa esperienza è stata anche fondamentale per farmi rendere conto di quanto siano insufficienti i servizi di supporto alla salute psicologica negli Stati Uniti, principalmente per i costi proibitivi.”
Il suo impegno e la sua dedizione verso coloro che si trovano in difficoltà, sia psicologica che economica, è ricorrente anche nel lavoro che ha iniziato a svolgere da qualche mese che, tra l’altro, le sta garantendo un visto lavorativo annuale.
“Lavoro con avvocati di ufficio che si occupano specificamente di ricorsi in appello. Questo significa che la stragrande maggioranza dei nostri clienti sono in carcere, e quindi sono sottoposti a stress inimmaginabili.”
“Il fatto stesso che siano in carcere vuole anche dire che verosimilmente hanno vissuto traumi ed esperienze che li hanno portati a grandi sofferenze e malesseri psicologici. Quello che vedo tutti i giorni, quindi, è quanto coercitive siano le soluzioni che questo Paese adopera in risposta al crimine e quanto sarebbe fondamentale lavorare sulle radici socio-culturali e psicologiche del male e del crimine.”
di Alice Rebolino