Famiglie expat e “riaperture”: tre realtà a confronto

Restrizioni e piano vaccinali non sono uguali in tutti paesi del mondo, e non lo è neanche il ritorno alla normalità. Tre famiglie expat raccontano la propria esperienza in Colombia, UK e Israele

Togliere la mascherina, riprendere le relazioni sociali, bere una birra con gli amici, viaggiare in aereo e sedersi accanto a sconosciuti: situazioni alle quali prima eravamo abituati ora sono diventate eccezionali.

Se la privazione di libertà può creare ansia, anche la libertà può fare lo stesso effetto: un sentimento di disagio di fronte al ritorno alla dimensione sociale è un sentimento che oggi provano molti italiani. 

Ma cosa succede negli altri paesi? Come vivono le “riaperture” gli italiani all’estero? Trovare punti in comune tra popolazione expat non è semplice.

Le variabili sono tantissime: la pandemia di SARSCoV2 ha attraversato i confini nazionali, eppure la pandemia non è stata uguale per tutti. Non ci sono state le stesse restrizioni al movimento sul territorio, oggi e neanche a inizio pandemia. Differenze rilevanti, anche per quanto riguarda la concezione stessa di “lockdown”. 

L’emozione che proviamo ora davanti all’inizio, forse della fase finale dipende da tanti fattori: dal luogo in cui viviamo, dalle restrizione imposte, ma soprattutto dalla personale esperienza di vita, apparentemente immobile ma intensamente vissute, degli ultimi 14 mesi. 

Tre famiglie expat ci raccontano, oggi, le prime emozioni davanti alle riaperture e al ritorno alla socialità. 

Dall’ottimismo che si respira in Israele, all’allontanamento dalla città in UK, all’“encierro più lungo”, in Colombia.

 

L’organizzazione impeccabile di Israele

Sin dall’inizio della pandemia lo stato di Israele ha adottato misure decise per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus: gli ingressi nel paese sono stati immediatamente bloccati e, a gennaio del 2021, i viaggi sono stati nuovamente vietati per un mese. 

Nella Covid Resilience Ranking , la classifica sui luoghi del mondo dove la pandemia è stata gestita in modo più efficace, Israele occupa il quinto posto, dopo la Nuova Zelanda, Singapore, Australia e Taiwan.

Internamente però, le restrizioni erano limitate rispetto all’Italia. Non era necessaria alcuna certificazione per gli spostamenti, era possibile fare la spesa con tutta la famiglia e i ristoranti sono rimasti aperti per il servizio di asporto fino a tarda notte. 

In Italia la situazione era ben diversa, e chi ha vissuto il paesaggio tra i due paesi può testimoniare che la sensazione di ansia e paura era molto più diffusa nel nostro paese. Anna, italo-marocchina che vive a Gerusalemme da 12 anni con il marito e la figlia Hili, di 11 anni, racconta il suo personale viaggio tra Italia e Israele, che a causa di una malattia, l’ha portata a separarsi dalla propria famiglia per sei lunghi mesi.  

Il 2020 è stato un anno che ha sconvolto la mia vita, e non solo per il Covid. Poco prima dell’inizio della pandemia sono tornata nella mia città, Viareggio” racconta Anna “In quell’occasione ho scoperto di aver un carcinoma al seno a soli 38 anni. Sono stata operata d’urgenza e  ho iniziato subito le terapie. Per me il primo lockdown è stato purtroppo scandito dal ritmo dei cicli di chemioterapia. Dopo l’operazione, quando la situazione dei contagi in Italia è diventata preoccupante, mio marito e mia figlia sono rientrati a Gerusalemme con l’ultimo volo. Non li ho visti per sei mesi, ovvero fino alla riapertura dei voli e alla fine della mia chemioterapia. Un periodo molto duro, ma che oggi, per fortuna, appare già lontano.  Appena ho messo piede in Israele mi sono subito resa conto che le persone erano molto più rilassate e meno spaventate rispetto all’Italia, forse grazie alla fiducia riposta nelle politiche di restrizione messe in atto dal governo”.

Il numero di decessi è stato inferiore rispetto all’Italia (6.000 su 9 milioni) anche se sarebbe potuto essere ancora più basso: alcuni gruppi infatti, come gli ebrei ortodossi o i beduini del Negev, non hanno sempre rispettato le misure che vietavano gli assembramenti collettivi in occasioni di funzioni religiose o cerimonie. 

A gennaio 2021 però, nonostante il paese abbia deciso di chiudere nuovamente le frontiere per un mese, la campagna vaccinale è partita in modo rapido e massivo.

Ricordo che un giorno, a gennaio, sono andata a fare una visita di controllo e mi hanno subito proposto la somministrazione del vaccino. Ho chiamato subito mio marito ed è stato somministrato anche a lui, entrambi senza appuntamento. Le cliniche vaccinavano chiunque si presentasse, e per spingere la gente a vaccinarsi offrivano persino una pizza, hummus o un knafeh (un dolce locale). In alcuni quartieri di Tel Aviv avevano lanciato anche la campagna ‘shot for a shot’, ovvero un vaccino per un drink gratuito. 

Oggi possiamo dire che ha riaperto praticamente tutto: scuole, negozi, centri commerciali, palestre, piscine, ristoranti e bar. L’unica limitazione è la richiesta del tampone da parte di alcuni alberghi, per chi non ha ancora fatto il vaccino. Mi aspettavamo una ripartenza più titubante, eppure la gente ha così voglia di tornare alla vita normale che sembra che il virus non sia mai esistito. C’è ottimismo per il futuro e, contrariamente alle emozioni che hanno i miei conoscenti in Italia, non c’è alcuna sensazione di ansia legata al ritorno alla normalità.  

Chissà, forse perché Gerusalemme è una città, da sempre, molto resiliente: la gente sa come rialzarsi e andare avanti. 

La riconquista della socialità rende felici i bambini e i ragazzi: da poco la classe di mia figlia è riuscita ad andare in gita nel deserto della Giudea non mi sembra vero!

 

Da Londra al verde Galles 

Anche il Regno Unito, che ha superato i 53 milioni di vaccinazioni, viaggia a gonfie vele verso le riaperture; le mascherine all’aperto, che non sono mai state effettivamente obbligatorie, sono ormai un miraggio. 

Le persone hanno riempito i pub, anche se ancora cibi e bevande si consumano ancora solo all’aperto. Tuttavia sono tanti coloro che hanno scelto una dimensione rurale e che guardano con timore e con la dovuta distanza al ritorno alle città affollate. 

E’ il caso di Marco, docente universitario, che dopo 4 anni a Londra ha trascorso l’ultimo anno nel verde Galles con la compagna Emma e la figlia Irene, di 10 mesi. 

Dopo la nascita di Irene abbiamo deciso di spostarci in Galles per diversi motivi, e tra questi non c’era assolutamente la paura del contagio” racconta Marco. “L’idea di sperimentare la vita all’aria aperta in una dimensione più piccola ma molto più ‘spaziosa’ ci allettava molto. Ma il motivo principale era la questione economica. Dopo la nascita di mia figlia ho dovuto chiedere il congedo parentale all’Università: è stato accettato ma non era retribuito. Vivere a Londra quindi, quest’anno era proprio al di fuori delle nostre possibilità.

Dopo un anno posso però dire che questa scelta è stata davvero la migliore per noi. A metà anno accademico ho ripreso a lavorare, nonostante fossimo in pieno lockdown. Le lezioni erano rigorosamente a distanza, i ristoranti erano chiusi e così anche molti negozi. Erano vietati gli spostamenti tra Inghilterra, Scozia e Galles.

Oggi, considerando il gran numero di dosi di vaccino inoculate, si riapre gradualmente. Le scuole hanno riaperto ma non ancora le università. I ristoranti possono servire i pasti all’aperto. 

La fase successiva, qui in Galles, è quella di riaprire, a brevissimo, anche i ristoranti al chiuso, anche se, nonostante il piano vaccinale, la gente qui è titubante per questa riapertura. 

Un’altra grande questione è quella delle università: le lezioni sono terminate questa settimana eppure si parla di riaprire i college a metà maggio. La fascia di età alla quale appartengono gli studenti però non è ancora stata vaccinata e l’anno accademico è ormai terminato. Un’apertura  considerata molto importante per il rilancio dei poli universitari, ma non realmente necessaria.

Nel frattempo, io e la mia famiglia ci siamo abituati alla dimensione della campagna gallese e apprezziamo tante cose di questo luogo. Camminare per ore senza mai incontrare nessuno, gli immensi spazi verdi tutti per noi e addirittura il mare a due passi. Non torniamo a Londra da un anno e credo che sarà sicuramente fonte di disagio: a settembre infatti dovremo lasciare la campagna e tornare alla vita cittadina. 

Le famiglie italiane che vivono a Londra e che conosciamo non hanno le nostre stesse difficoltà: la dimensione collettiva alla quale sono stati abituati quest’anno, nonostante le chiusure, li porta ad adattarsi alla normalità, seppure gradualmente, ma sempre più velocemente rispetto a noi che invece siamo stati fuori.  

Ovviamente non siamo gli unici ad aver lasciato Londra la scorsa estate: è stato un anno anomalo, in cui chi ha potuto ha svolto il lavoro prevalentemente in smartworking e a ottobre molte persone hanno scelto di cercare casa in luoghi più verdi e spaziosi lontano dalle città. Molta gente di Bristol è venuta in Galles, ad esempio. E ora, credo che chi potrà non tornerà indietro tanto facilmente”.

 

Colombia: dopo il lockdown più lungo, si celebra il ritorno alla socialità 

Dopo aver imposto uno dei lockdown più lunghi al mondo nel 2020, la Colombia oggi affronta ugualmente la terza ondata. Un “encierro”, o quarantena preventiva, con restrizioni molto dure. Nelle grandi città, come Bogotà, ai cittadini erano concesso uscire dalla propria abitazione per fare la spesa, solo un membro della famiglia alla volta. Per questo motivo, dopo tre mesi di isolamento nelle proprie abitazioni, diverse famiglie straniere hanno deciso di fare ritorno al proprio paese di origine. 

Tra queste ci sono Valentina, insegnante di teatro e danza a Bogotà, il marito Michele, anche lui docente, e il piccolo Enea di un anno e mezzo. 

“Il lockdown del 2020 è stato durissimo per noi, ma lo è stato soprattutto per la popolazione di Bogotà: le notizie che arrivavano dall’Europa hanno subito generato paura e portato a una paralisi generale. Inizialmente c’è stata una corsa ai beni di prima necessità: non era possibile acquistare più di una confezione di uova oppure di una bottiglia di latte. Oltre al coprifuoco, la vendita di bevande alcoliche era concessa solo a domicilio. I ristoranti, i centri commerciali, i teatri e i cinema sono sempre rimasti chiusi nei periodi di picco dei contagi. 

Ricordo la commozione durante la prima passeggiata all’aria aperta con il piccolo Enea. Mi capitò di incrociare lo sguardo e ci siamo sorrise: era la prima sconosciuta che vedevo il faccia dopo settimane. 

In estate, per motivi famigliari, abbiamo deciso di tornare in Italia per un periodo dopo aver fatto richiesta di rientro all’ambasciata. Il lockdown in Colombia si prospettava essere ancora lungo e in Italia le prospettive in estate erano migliori. Purtroppo non è andata così. 

All’inizio dell’autunno, proprio quando eravamo in procinto di rientrare in Sud America, la casa di mio padre, in Molise, dove eravamo ospitati, si è trasformata in un piccolo focolaio di Covid-19. Io e Michele siamo risultati positivi e avevamo diversi sintomi, ma situazione sembrava sotto controllo. Il piccolo Enea continuava ad avere febbre a giorni alterni ma risultava sempre negativo al virus. 

L’ultimo a contrarre la malattia però, è stato mio padre. Per lui le cose non sono andate come per noi. I sintomi sono peggiorati fino a contrarre una polmonite bilaterale e dopo un ricovero di tre settimane nel reparto malattie infettive è stato 10 giorni in terapia intensiva. 

Attendevamo ogni giorno la telefonata dell’ospedale con il fiato sospeso, anche se io, dentro di me, ero convinta che sarebbe rimasto attaccato alla vita. E’ così è stato. Dopo un ulteriore mese in ospedale, è tornato a casa. Lo abbiamo atteso per due mesi, ospiti nella sua casa di Termoli e poi, finalmente abbiamo festeggiato insieme il capodanno.  

E’ stata un’esperienza che mi ha segnata e mi ha lasciato un gran senso di insicurezza. Vivere in Molise, in un periodo in cui le terapie intensive erano piene, e un solo ospedale, quello di Campobasso, era in grado di curare i pazienti Covid, non mi faceva sentire per nulla al sicuro. 

E anche a gennaio, i primi tempi, avevamo tanta paura che papà si ammalasse nuovamente e che potessimo essere noi i veicoli del contagio.  

La situazione e l’esperienza vissuta mi avevano generato una tale ansia che, quando papà ha iniziato a riprendere in mano la sua vita, abbiamo colto l’occasione delle riapertura delle scuole in Colombia – con didattica al 50% – e siamo tornati a casa.

Tornare in Colombia per me è stato come respirare di nuovo. Mi sono resa conto dell’apnea in cui avevo vissuto in tutti quei mesi trascorsi in Italia. Chiusi tra 4 mura, attaccati al telefono, senza incontrare amici e senza neanche vedere mia mamma che vive a Torino”.

Oggi i colombiani affrontano la terza ondata: la campagna di vaccinazione prosegue ma l’attenzione resta molto alta, i morti hanno superato i 78.000. 

Tuttavia le attività stanno riaprendo e le lezioni sono garantite in presenza al 50%.

Da quando siamo arrivati ci sono state delle settimane in cui si è registrato il picco dei contagi. In quei casi si mantiene la restrizione del ‘pico y cedula  – in vigore già l’anno scorso: significa che puoi uscire nei giorni pari o dispari a seconda del numero finale della tua carta di identità. Come le targhe alterne insomma.

In queste settimane la capitale colombiana è oggi centro di manifestazione a causa della riforma tributaria del governo che prevede, tra le varie misure, l’aumento dell’IVA per i beni di prima necessità. 

Vedremo a breve se ci sarà un aumento dei contagi dovuto alle manifestazioni in corso. 

Nel frattempo la gente cerca di vedersi il più possibile all’aperto: c’è un gran voglia di stare insieme

Viviamo qui soltanto da due anni e mezzo, ma in questo momento sento che, per ora, questa è la nostra casa. 

Tornando ho ritrovato un forte desiderio di condivisione con gli altri che l’esperienza italiana mi ha negato.  Ho ripreso quel respiro che mi toglieva la paura, l’incontro con la malattia, l’attesa, la costrizione tra le mura di casa e l’isolamento all’interno della stessa casa. 

Il ritorno a casa non è stato quello che ci aspettavamo certo, è stato un viaggio lungo e difficile che però ci ha cambiati e ci ha fatto crescere come individui.

Oggi, alla fine di quest’anno difficile, posso dire che siamo tornati a vivere, anche se l’emergenza non è giunta ancora alla fine. 

Ci incontriamo con altre famiglie, all’aperto e in sicurezza ovviamente, perché abbiamo bisogno di condividere le emozioni che ci siamo portati dietro in tutti questi mesi. E’ tornato il tempo di tornare a respirare a pieni polmoni”.

(L’intervista ad Anna risale a prima degli scontri tra Hamas e Israele iniziati a maggio 2021.)

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