Arjun Appadurai, antropologo indiano naturalizzato statunitense, è il padre di una delle prospettive di maggior successo sulla globalizzazione. Sviluppò il concetto in “Modernità in polvere” (1), edito nell’ormai lontano 1996.
In quegli anni, il concetto di globalizzazione, ancora giovane, cominciava a ricevere riconoscimento mediatico. Veniva intesa essenzialmente come un fenomeno di origine occidentale, un processo di esportazione di cultura, conoscenze, economia e mezzi verso paesi in via di sviluppo. Una sorta di “occidentalizzazione del mondo”.
Senza negare totalmente il ruolo dell’Occidente in questi processi, Appadurai riconcettualizza la globalizzazione sottolineando come, in realtà, non abbia un vero e proprio fulcro. “Più che un movimento da un punto A verso un punto B”, è un insieme di flussi caotici distribuiti su molteplici scenari. Nei contesti del mondo globalizzato non si instaurano relazioni unidirezionali tra un donatore di nuove risorse e un ricevente. Si tratta, piuttosto, di scambi reciproci di strumenti che si trasformano. Assumendo, una volta calati in altri e nuovi scenari, un assetto del tutto particolare.
Gli esiti della globalizzazione: i 5 scenari di Appadurai
Appadurai identifica 5 livelli – o scenari – caratterizzati dal flusso della globalizzazione:
- Un etno-rama. Si tratta della circolazione costante di persone, che oggi riescono a muoversi tracciando traiettorie sempre più marcate all’interno del contesto internazionale.
- Un tecno-rama. Con questo termine Appadurai indica il flusso delle tecnologie, che si dislocano attraversando confini sempre più permeabili.
- Un finanzio-rama. E’ il flusso della ricchezza, diventata interdipendente tra le varie aree del mondo. Un esito di questo processo? La diffusione, sul piano globale, della crisi finanziaria del 2008 partita dall’annuncio di fallimento dell’istituto bancario USA Lehman Brothers.
- Un medio-rama. Livello identificabile con la possibilità di circolare, in modo sempre più capillare e individualizzato, di immagini e informazioni. Un fenomeno che produce immaginari peculiari all’interno del complesso contesto globale odierno.
- Un ideo-rama. E’ il propagarsi delle idee e delle ideologie che, da assunti universali, trovano espressione comune nelle politiche locali(3).
Vecchi e nuovi migranti: la globalizzazione è davvero un fenomeno recente?
In questa lettura della globalizzazione, Appadurai sostiene che la tendenza all’influenzamento reciproco tra diverse civiltà non sia, in realtà, un fatto così recente. Da sempre, infatti, individui e popolazioni si sono spostati alla ricerca di condizioni esistenziali migliori. Tuttavia, è solamente dalla seconda metà del secolo scorso che questi movimenti assumono caratteristiche differenti.
Le tecnologie associate ai trasporti e ai mezzi di comunicazione hanno mutato lo scenario migratorio, introducendo almeno due paradigmi oggi chiaramente individuabili.
Da un lato: i migranti veri e propri, sovrapponibili alle rappresentazioni con cui siamo soliti immaginarli. Persone che decidono di spostarsi da un luogo a un altro e che intendono l’integrazione come un’assimilazione da parte del contesto d’arrivo. Abbandonano l’identità precedente e i legami con l’ambiente di partenza. Non mantengono rapporti continuativi con il luogo d’origine, se non sotto forma di immagine idealizzata. L’emigrazione italiana a cavallo tra ‘800 e ‘900 ricalca precisamente questo modello.
Dall’altro, una nuova modalità di migrare, che trova nel termine “diaspora” la propria peculiarità.
L’espatrio come scelta e progetto
Il nuovo paradigma migratorio sostenuto da Appadurai si colloca in maniera consequenziale rispetto all’innovazione tecnologica. Questo scenario appartiene a chi fa dell’espatrio un progetto. Appartiene ai “diasporici”. Persone per le quali la spinta a partire si è trasformata da una necessità a una più mitigata “scelta”.
Lo sviluppo delle tecnologie permette, nel presente, di mantenere i contatti con la realtà di appartenenza. Facilita la ricerca, nel luogo di arrivo, di persone con la stessa provenienza. E’ sempre più plausibile, quindi, un’alternativa: quella di sentirsi parte di una comunità diasporica, più che di una popolazione assimilata.
In qualunque parte del mondo siamo, se abbiamo accesso a certi strumenti e mezzi, abbiamo la possibilità di contattare la nostra famiglia lontana. Di leggere i quotidiani del nostro Paese di origine. Di partecipare attivamente a scelte e discussioni che riguardano il nostro contesto di partenza. L’abbandono della nostra identità originaria è diventato modulato e modulabile.
Nei resoconti di chi percorre questo tipo di traiettoria migratoria, si intravedono sempre più spesso questioni relative all’aspetto diasporico. Il termine “expat” si riferisce proprio a questa seconda tipologia di migrazione, in cui il sentimento di “perdita” si fa più sfumato. Non si subisce una perdita – della propria identità etnica, religiosa e linguistica -; al contrario, si acquisisce qualcosa. Il diasporico diventa, in qualche modo, un personalissimo interprete dell’incontro tra più culture. Secondo Appadurai l’integrazione, in questo senso, diventa un autentico processo di sintesi multiculturale.
Migranti diasporici: veicoli di cambiamento
Sul piano individuale, il migrante diasporico vive in prima persona l’intero processo di scontro/incontro dei due contesti (d’arrivo e di partenza). E’ stimolato a individuare soluzioni di continuità che siano funzionali ai propri bisogni. Attraverso il potere dell’immaginazione e l’elaborazione di strategie di adattamento, diventa un vero e proprio attore della globalizzazione, protagonista di un cambiamento su più piani. A modificarsi sono, contemporaneamente, sia la cultura di partenza che quella d’arrivo.
Il migrante diasporico, utilizzando la tecnologia che ha a disposizione, sposta se stesso da un luogo all’altro. Muove flussi economici. Accede a informazioni provenienti da diversi contesti. Genera contenuti mediali che andranno a influenzare gli ambienti che ha scelto per vivere.
Mentre migra, il viaggiatore può oggi trasportare con sé porzioni del proprio immaginario indigeno, filtrare o produrre informazioni che incontra nel suo spostarsi o nel luogo di destinazione. Si lascerà influenzare dalle idee e dalle ideologie, dalle norme e dalle credenze e ne sarà in futuro il veicolo di scambio.
Chi migra può, oggi, modificare radicalmente il paesaggio culturale che attraversa. Non solo e non tanto per una questione numerica, legata alla quantità dei “nuovi migranti”. Piuttosto, il potere trasformativo di queste persone deriva dal peso dell’immaginazione, intesa come pratica sociale di negoziazione delle identità calate nei molteplici contesti.
L’attuale impossibilità di essere assimilati in maniera totale dal nuovo contesto, legata alla progressiva evoluzione delle forme di comunicazione e archiviazione, alimenta lo sviluppo di una “cultura expat”. Un patrimonio che è in continuo cambiamento, con tante sfumature quanti sono gli attori della sintesi che ogni migrazione impone. Non un sistema monolitico e immutabile, ma un flusso dinamico di conoscenze, idee, mezzi e strumenti che oggi più che mai influenza il panorama globale. E che sempre di più sarà protagonista di uno scenario ancora difficilmente immaginabile ma, in fondo, non così lontano.
NOTE
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Appadurai, A. (2001). Modernità in polvere (Vol. 4). Meltemi Editore srl.
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Un’esaustiva e sintetica interpretazione delle dinamiche che hanno portato alla globalizzazione della crisi conseguente all’annuncio di fallimento di Lehman Brothers: è possibile ritrovarla in un articolo scritto da Stefano Cingolani nel settimanale Panorama il 2 aprile 2018.
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La relazione tra cultura e politiche globalizzate è ben messa in luce nel testo scritto da Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, edito da Meltemi Editore srl.