Stamattina non ho dovuto accendere la radio e nemmeno la tv perché la notizia mi raggiungesse. Dal letto ho preso il mio smartphone e ho aperto i social network in un gesto automatico e quotidiano. La foto di un’esplosione era stata ripresa da molti “amici”, accompagnata dalla parola “GUERRA”.
Il mio wall era, ed è tuttora, pieno di commenti e analisi, di manifestazioni di paura. Non essendo una politica, non mi addentrerò in questioni complessissime, con radici antiche. Ma sono una psicologa, e mi occupo della salute psicologica (o almeno ci provo) delle persone e della società. Quello che mi interessa, ora, è provare a tracciare una riflessione che alimenti un dibattito. Indagare il funzionamento dell’infodemia in quanto meccanismo che tendiamo ad alimentare, in maniera continua e reciproca, con modalità sempre più intensive dall’avvento dell’Internet 2.0.
Come psicologi, in questi due anni di pandemia ci siamo trovati – ci troviamo tutt’ora e ci troveremo -, a raccogliere i cocci provocati da disturbi post traumatici da stress che vedono nell’information disorder, di cui l’infodemia rappresenta solo un tassello, uno dei fattori scatenanti.
Perché la necessità di esprimere, rilanciare, amplificare e reinterpretare la realtà nell’infosfera è irresistibile.
Se è sempre stato vero che nessuno scrive per se stesso, neppure i diari segreti, i social rappresentano l’amplificazione di questo concetto.
Credo che si possa partire da qui: dal capire a chi vogliamo indirizzare il messaggio e che cosa stiamo davvero veicolando, tra guerra e infodemia.
Da quando possiamo democraticamente esprimerci, senza la mediazione di un editore che operi una selezione dell’informazione, abbiamo acquisito, contemporaneamente, tanto un diritto quanto una responsabilità individuale.
Ciò che decideremo di dire e postare, soprattutto su un argomento dal grande impatto emotivo come la pandemia, i vaccini o la guerra, avrà una potenza amplificata. Si sommerà, nella mente di chi ci leggerà, ai commenti che anche gli altri scriveranno, intensificando in un senso o in un altro la comprensione o la distorsione dell’informazione stessa.
Le parole hanno un peso: soprattutto quelle scritte. Sia perché, in mancanza di prosodia e in eccesso di sintesi, sono maggiormente soggette a fraintendimenti, sia perché rimangono. Nell’usarle, dovremmo ricordarci che anche noi siamo contributori dell’information disorder e, di conseguenza, dell’amplificazione della nostra stessa angoscia in momenti sociali così caotici e drammatici.
Condividere la paura è sempre stato un meccanismo sociale importante. Perché permette di empatizzare, solidarizzare e organizzarsi in gruppi coesi. Ma penso sia possibile, e doveroso, tracciare un confine etico, nitido e accurato, tra un atto di condivisione che ci aiuta, ci supporta e crea umanità e quella forma di condivisione narcisistica e manipolatoria che gonfia l’ego e i like e cidivide.
A ciascuno la sua tastiera, guerra e infodemia. E, come dice l’Uomo Ragno: “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.