Definire la propria identità è spesso un compito arduo, frutto di un processo fluido che frequentemente tiene conto del contesto entro il quale si situa. Basti pensare a tutte le volte che ci è stata posta la domanda “chi sei?” e al grande ventaglio di risposte che si è tentato di fornire per capire quanto il concetto di identità sia complesso.
Molti si sono interrogati sul perché l’identità individuale rappresenti un così grande universo di significati da rendere così difficile e complessa una risposta ad una domanda così semplice. Una risposta su cui convergono molte correnti di pensiero appartenenti ad altrettante discipline è che la formazione dell’identità è strettamente legata alla dimensione relazionale in cui il soggetto ha la possibilità di svilupparsi a partire dall’incontro con l’altro.
L’identità appare, secondo questa prospettiva, come un grande e complesso cloud che si forma in base agli scambi e alle risposte ricevute durante le prime interazioni della nostra vita e che man mano si è strutturato, ampliandosi, grazie ai significati che ognuno di noi ha colto, mediato e restituito in ogni singola relazione con l’esterno: interazioni personali, relazioni con gli aspetti concreti dell’ambiente, negoziazione di ruoli sociali, acquisizione di abilità professionali. Ognuna di queste interazioni ha amplificato e diversificato la percezione che si ha di sé e, tornando all’esempio della domanda “chi sei?”, ha fatto sì che ogni risposta assumesse una particolare tonalità a seconda del contesto relazionale entro cui essa veniva posta.
In un mondo relazionale costituito da realtà molteplici, l’identità si fa plurale, a volte discordante; incoerente per certi aspetti e complessa per altri. L’incontro con un altro diverso da me rimescola le carte in gioco offrendo la possibilità di rivedere alcune delle definizioni a cui sentiamo di appartenere.
Nell’attività di redazione del blog di Transiti è stato dato particolare spazio e particolare continuità ai racconti di esperienze reali di espatrio al fine coinvolgere e farsi coinvolgere nella complessità delle trame che un percorso migratorio porta con sé. Non per spaventare mettendo il luce i rischi di una tale scelta, non per sedurre nel portare avanti un progetto migratorio; semplicemente, l’intento è quello di restituire un’autenticità ad un fenomeno che spesso viene visto in termini più quantitativi che qualitativi (termini comunque necessari per una buona conoscenza del tema). Ci è spesso capitato, ascoltando e confrontandoci con gli interlocutori che si sono offerti di condividere la propria esperienza di assistere a questo processo di ristrutturazione identitaria all’interno della traiettoria migrante.
Sul piano professionale la storia di Luca ci racconta di come l’alterità dell’espatrio sia entrata prepotentemente nella sua vita utilizzando il canale della comunicazione artistica e musicale.
Il suo lavoro, che come lui stesso afferma è anche la sua passione, nasce all’interno di un contesto d’espatrio e si sviluppa proprio a partire dall’incontro con le diverse culture.
Uno strumento musicale non è solo un suono, è una cultura, una storia che narra se stessa attraverso un canale comunicativo dotandolo di significato: trasforma in musica quello che altrimenti sarebbe solo un effetto acustico. Luca e Cristina (la sua compagna, ndr), facendo tesoro di questo aspetto, si raccontano e raccontano il proprio incontro con l’altro all’interno dei cicli meditativi utilizzando questo canale. Rispondono alla domanda “chi sei?” con una pluralità fatta da musica che parla di loro, dei propri viaggi, degli altri che hanno incontrato e con cui si sono confrontati; parla di identità.
Allo stesso modo Giorgia, una graphic designer che ha scelto di partire per gli Emirati Arabi con il suo compagno, si è vista costretta a dover riconsiderare nell’incontro con l’altro il suo ruolo di essere donna e manager in un contesto culturalmente sfavorevole:
“Se reagivo rischiavo di perdere il lavoro, se non reagivo rischiavo di perderlo comunque perché mi poteva essere recriminato il fatto di non aver saputo gestire la situazione. […] Mi sono trovata spesso in queste situazioni ma, nonostante le mille difficoltà, devo dire che è stata un’esperienza immensa e io sono riuscita a gestirla. […] Mentre racconto queste cose mi viene da dire che oggi sono molto orgogliosa di quello che ho fatto su me stessa.”
In questi contesti, il lavoro di ricostruzione identitario è lungo e difficoltoso. Il senso di solitudine, come la stessa Giorgia racconta, è in grado di sommergere tutto, di annullare la propria vitalità e le proprie aspettative verso il futuro. Ed ecco che di nuovo l’incontro con l’altro, seppur trattandosi di un altro ostile, può venire in soccorso. La negoziazione del proprio ruolo, la fermezza e la determinazione nel raggiungere un obiettivo pur avendo di fronte una cosa più grande di lei, la consapevolezza di dover entrare in un conflitto impari di significato, le ha restituito un senso di presenza a sé stessa, una consapevolezza di esistere e di essere, che è stato il motore del suo cambiamento e che si è rivelato fondamentale nelle vicissitudini che in seguito ha attraversato.
Antonio parla di sé come di un giovane ventenne che, emigrando a Berlino, riesce a conoscere e a scoprire la sua sessualità grazie a nuove relazioni, a nuovi ruoli e contesti:
“Preso dalla paura, da questo cambiamento… decisi di tornare a Sanremo. Appena arrivato sapevo di aver fatto la cosa sbagliata, sapevo che il mio posto era a Berlino. Ormai avevo accettato la mia omosessualità al 100%. Condivisi questa consapevolezza subito con tutti gli amici. Con i familiari è stato un po’ diverso, un po’ più delicato…”
Il significato di una scoperta poi riportata a ‘casa’, condivisa con gli amici di sempre, con i genitori. Qui l’incontro con l’altro ha comportato un ulteriore passo: la restituzione di senso nel contesto di partenza. La sua vicenda racconta il tentativo di costruire un ponte tra due mondi che altrimenti non si sarebbero mai incontrati, incarna in maniera particolarmente significativa il ruolo dell’identità come processo di migrazione e collegamento di mondi sociali plurali che, in questo caso grazie all’azione di Antonio, si sono per un breve periodo incontrati, scontrati ed infine compenetrati, generando soluzioni originali e personali che restituiscono senso e significato in una dinamica sociale e storica più ampia.
Viviamo un tempo caratterizzato dalla mobilità e da fenomeni migratori di massa in cui la fuga da identità fisse (siano esse culturali, di genere o lavorative), la loro ibridazione, e con essa la compenetrazione delle rispettive culture, è spesso vista come una minaccia. Si avverte il rischio per una perdita d’identità tanto individuale quanto collettiva. L’altro destabilizza, turba la coscienza di chi cerca di rispondere al “chi sei?”, ne rende vana la risposta, si rende incomprensibile e per questo generalizzato: sono tutti uguali.
Tuttavia, l’alterità rappresenta anche la dimensione primaria della crescita. Le traiettorie degli expat sono una testimonianza viva della creatività che scaturisce nell’incontro con l’altro: una creatività a volte complessa da integrare e da riconoscere al proprio interno, altrettanto difficile da comunicare e condividere nell’incontro. Una creatività che nonostante tutto esiste, e pare proprio essere il mezzo più efficace per ricercare le soluzioni ai nostri problemi più comuni.
Ci riconosciamo nell’altro: in Luca e Cristina quando suonano la loro storia raccontandoci di sé e degli spazi in cui le loro identità si sono mosse. Ci si stringe lo stomaco nel sentire il magone di Giorgia quando ripensa ai compromessi ai quali è scesa per preservare quel briciolo di autenticità rimasta che è poi stata la pietra fondante della sua risalita. Sorridiamo con Antonio quando ci racconta dello stupore provato la prima volta che ha visto con chiarezza quello che in fondo ha sempre saputo.
Insieme a loro e a molti altri immaginiamo percorsi e traiettorie, negoziamo significati nel tentativo di comprendere e di farci comprendere, magari costruendo anche qualcosa di nuovo e più adatto a noi stessi e agli altri. Nel raccontare queste storie ci sentiamo un po’ parte di loro e un po’ parte di chi le leggerà, e per quanto complessi saranno i significati che dovranno attraversare questi spazi, siamo convinti che nessuna identità sarà così incomprensibile e nessun altro così minaccioso.
“Chi sei?”
Che vita sarebbe se non si provasse nemmeno a rispondere insieme a questa domanda?