Irene vive in uno dei capoluoghi di provincia del Piemonte e da poco tempo è diventata mamma del piccolo Simone. Dopo qualche anno dal suo rientro in Italia, ci racconta l’esperienza di un lungo dottorato in Germania.
Un periodo non privo di difficoltà, che al suo rientro ha avuto il bisogno di essere rielaborato nel modo giusto per comprenderne il valore di un’esperienza che ha portato un’importante crescita professionale e personale.
Un dottorato in Germania, un’opportunità di crescita
Era il periodo del boom del fenomeno degli Erasmus e Facebook iniziava a fare capolinea nella vita degli europei. L’idea della mobilità studentesca, ovvero dell’esperienza all’estero considerata quasi necessaria, si imponeva all’orizzonte di chiunque avesse deciso di intraprendere un percorso di studio in un’università.
“Nel 2008 ho conseguito la laurea alla facoltà di scienze ambientali a Genova” racconta.
“Dopo alcune brevi esperienze lavorative in giro per l’Italia, ho deciso di fare domanda per entrare in un programma di dottorato. Non era ancora il momento delle bolle finanziarie e della crisi economica globale e l’aria che tirava almeno fino a quel momento sembrava lasciar intravedere prospettive promettenti.
Così anche io, dopo un periodo di ricerca di opportunità in Italia ho deciso di ampliare la ricerca anche all’estero in paesi anglofoni o in istituti che prevedessero una didattica in inglese.
Un istituto di ricerca di una città della Germania settentrionale ha accettato la mia candidatura per un progetto di dottorato e senza pensarci due volte ho deciso di partire.
Le motivazioni erano tante. Volevo prendere un dottorato e mi sono detta: perché non farlo all’estero? Una buona occasione per ottenere un valore in più, un fattore di crescita. L’istituto che aveva accettato la proposta era per di più eccellente e questo è stato un terzo fattore che mi ha spinta a partire. Non ho mai vissuto la mia partenza come una fuga, ma come una crescita”.
Il confronto con una nuova lingua
Da anni Irene era fidanzata con Marco, oggi suo marito e padre di suo figlio. Anche Marco capisce fin da subito quanto sia importante per Irene questa esperienza. Lo stesso fa la sua famiglia, entusiasta della scelta della figlia.
Marco decide di accompagnare Irene nella partenza e fermarsi qualche giorno con lei inaugurando insieme questa nuova esperienza: “È stata un’ottima strategia, la definirei soft, in questo modo non era come se nessuno sapesse dove fossi, il mio compagno aveva un’idea e potevamo condividere parte delle mie esperienze; è stato un fattore fondamentale.”
Ai primi di settembre Irene comincia a confrontarsi con quella che per qualche anno sarà la sua nuova casa: “Tra le cose che ricordo c’è il rapporto con la nuova lingua. Nella ricerca per il dottorato mi ero soffermata all’inglese perché lo parlavo fluentemente; poi ho optato per questo istituto tedesco, ma io il tedesco non lo sapeva proprio.
Anche se nei laboratori conversavamo in inglese presto mi sono accorta che conoscere il tedesco era fondamentale.
Quando si usciva fuori dall’istituto la lingua parlata era quella. Così, oltre al carico di lavoro che avevo per il dottorato, ho aggiunto anche i corsi di lingua”.
Solo lavoro, nessun tempo per sé
Mano a mano che il tempo scorre Irene si accorge che la sua vita in Germania ruota tutto intorno al dottorato. Il lavoro da fare è notevole e spesso e volentieri è costretta a rimanere nei laboratori anche nei fine settimana.
“Mi imponevo di prendere almeno la domenica pomeriggio per concedermi una passeggiata. Mi ricordo delle innumerevoli volte che il mio supervisore mi chiedeva di riformulare. Questo modo di andare avanti a prove ed errori era diventato per me molto frustrante.
Nel frattempo mi resi conto che anche i tempi non erano quelli che pensavo. Pensavo di stare via circa tre anni, invece stando là scoprii che la durata media di un dottorato in Germania era di circa cinque.
Ero costernata. Mi sentivo come se il tempo mi scivolasse via dalle mani. Cominciai a chiedermi se fossi veramente in grado di portare avanti questo progetto, se non fossi un’incompetente.”
Irene comincia a tornare a casa meno frequentemente, anche per le continue scadenze che questo percorso le impone e questo rende ancora più difficile e dura la sua permanenza.
“Per me il fatto di tornare a casa regolarmente era importante: mi ricaricava. In Germania gli inverni sono più uggiosi e lunghi. Ritornare mi permetteva di prendere una boccata d’aria.
Il cibo in tutto ciò aveva un valore importantissimo. Anche per questo credo che un’esperienza all’estero, di studio o lavorativa, possa essere considerata più dura, perché tutto questo, insieme agli affetti, te lo lasci alle spalle, o meglio, dietro di te”.
Arriva il senso di colpa
Il suo senso di colpa per non riuscire a fare abbastanza assume più sfaccettature: “Nell’immediato era sicuramente nei miei confronti. Quando uscivo per fare una passeggiata mi recriminavo il fatto che non fossi alla scrivania a scrivere.
Forse più in profondità era un senso di colpa anche nei confronti di chi stava credendo in me. E che mi stava aspettando.
Eravamo in tanti dottorandi a vivere così e questa condivisione ti faceva sentire come se parlassi lo stesso linguaggio, condividevamo lo stato d’animo ma anche i traguardi. Sentivi proprio che era diverso parlarne con persone esterne a questo, perché sottovalutavano alcuni aspetti, alcune difficoltà”.
Irene cerca comunque di portare avanti il suo progetto e di concluderlo. Nonostante i momenti di difficoltà siano intensi, la sua motivazione rimane forte.
“Il fatto di aver condiviso la mia esperienza ha fatto la differenza. Col senno di poi avrei dato più spazio a tutti quegli aspetti della vita all’estero che non erano prettamente relazionati con il dottorato. Credo di non essere riuscita a viverlo con sufficiente leggerezza. Il tempo libero, le relazioni con i colleghi e con i ‘compagni’, ovvero coloro che hanno avuto un ruolo importante di sostegno, supporto e condivisione delle esperienze”.
Rielaborare l’esperienza con la psicoterapia
Al suo ritorno dalla Germania Irene intraprende un percorso con una psicoterapeuta anche perché sente la necessità di riformulare quella che è stata la sua esperienza.
“Ai tempi del dottorato non ho cercato un supporto psicologico o di gruppo perché mi mancava la conoscenza del ruolo dello psicologo e dei gruppi di mutuo aiuto. Quando sono tornata in Italia ho seguito un percorso con uno psicoterapeuta.
Avevo bisogno di rielaborare tutto quello che è stato. Se avessi conosciuto il ruolo dello psicoterapeuta l’avrei sentito già dal primo periodo anche solo per capire che quello che provavo che era una cosa normale. Il fatto di riuscire ad essere consapevole che non fossi io l’incapace, che tutta questa sofferenza fa parte del tuo percorso e ti può aiutare a crescere è importantissimo ed è una cosa che ho un po’ perso nella mia esperienza là. Che è venuta solo dopo.”
Le lancette della vita
Le chiediamo se esiste per caso un ricordo, una sensazione, un pensiero che possa rappresentare con un’immagine diretta la sua esperienza di dottorato.
“Se penso a un ricordo particolare o a una sensazione, mi vengono in mente gli ultimi secondi della discussione finale del dottorato. Uno dei parametri di valutazione era la capacità di stare nei tempi indicati dalla commissione che nel mio caso corrispondevano a venti minuti. Mi ricordo di aver pronunciato le ultime due parole nel preciso istante in cui la lancetta del cronometro della sala tornava sullo zero. La è come se mi fossi sgonfiata. Mi veniva da pensare alla fatica che avevo fatto per resistere, al mio relatore che era mancato e a tante altre cose…”.
Questa discussione era andata così bene che è come se avesse spazzato via gli aspetti negativi della sua esperienza, quella lancetta che prima scandiva i tempi in modo così opprimente si era finalmente risincronizzata con la sua vita e lo aveva fatto in grande stile, proprio nel momento cruciale della sua esperienza.
Ritrovarsi nei propri ricordi è un aspetto cruciale per chi si ritrova ad affrontare un cambiamento importante nella propria vita. Il risintonizzarsi con le proprie sensazioni e riprendere il contatto con la propria dimensione interna, ricominciare a sentirsi sé stessi nonostante i cambiamenti permette di ritrovare quel senso di continuità che spesso viene interrotto nelle esperienze di migrazione.
Affrontare le battaglie aiuta a crescere
Come la stessa Irene racconta, in questi momenti è importante che ci sia qualcuno che ci ascolti, che un po’ come farebbe uno specchio ci dia la possibilità di guardarci, di riconoscerci, di uscire da quella concretezza che contraddistingue le esperienze di migrazione:
“Imparare a cercarti una casa, a leggere la bolletta, parlare al centro per l’impiego in tedesco. Sono tutti piccoli spazi mentali dovrebbero essere lasciati liberi per avere il tempo di rilassarti, per pensare a te, per riflettere su chi sei e dove stai andando e invece sono occupati dalla burocrazia, dai traslochi, dai corsi di lingua.
Alla fine, mi sento molto fiera della mia esperienza e, nonostante tutto, non mi sono affatto pentita di essere partita. Sono riuscita a trasformare le difficoltà e le sofferenze in nuovi punti di forza, e ho rivisto tutto da fuori anche alla luce dell’effettivo successo che alla fine è arrivato.
Quando ripenso al mio dottorato in Germania, mi ricordo come una persona un po’ inesperta, a volte immatura.
Ora mi sono resa conto di essere cambiata, cresciuta e di essere più forte.
Appena ho l’occasione di parlare con qualcuno che ha scelto di intraprendere un percorso all’estero cerco di incoraggiarlo tantissimo a non mollare. Affrontare le sconfitte, che poi devi vedere solo come battaglie, ti aiutano a trovare la strada giusta”.