Ieri sono stata alla presentazione del diciassettesimo Rapporto Italiani nel Mondo. Vorrei condividere, prima di tutto, l’emozione. Un lavoro collettivo a cui ho partecipato insieme ad altri 40 ricercatori dislocati in tutto il mondo, diretti dalla tenacia, dalla sapienza e dalla tenerezza della curatrice Delfina Licata, sociologa delle migrazioni. Avere tra le mani il libro è sempre un momento di grande meraviglia.
Riuscire insieme a tessere, a distanza e con fiducia, una trama armonica che fotografa e racconta lo stato dell’emigrazione italiana, anno dopo anno, è una bella sfida. Il quadro che si compone è articolato, mai scontato e, come in tutte le ricerche degne di questo nome, nuovo, nelle conclusioni, anche per i ricercatori stessi.
La scoperta è per me un grande motore. Sono una persona molto curiosa e trovarmi di fronte a pensieri non ancora elaborati è fonte di passione e rinnovata energia per tramutare poi quei pensieri in progetti a servizio della salute psicologica degli italiani nel mondo.
Partecipare alla presentazione del Rapporto è per me soprattutto un momento prezioso di apprendimento e riflessione. Un momento di studio e condivisione, in cui raccogliere e accogliere il nuovo.
Con grande coraggio, stamani, si è parlato di quell’abominio umano e clinico che è rappresentato dagli sbarchi selettivi di cui, per un approfondimento, vi consiglio l’articolo Rifugiati in attesa di assegnazione di un porto sicuro: i fattori di rischio a carattere potenzialmente ri-traumatizzante, pubblicato dal gruppo di etnopsicologia dell’Ordine degli Psicologi della Sicilia.
Se affrontiamo il tema dell’essere un paese respingente ed espulsivo da un’altra angolazione, il RIM evidenzia con molta chiarezza che oggi ad emigrare sono soprattutto i giovani tra i 18 e i 34 anni. Emigrano per non tornare. Non alle condizioni di vita che vengono loro proposte in Italia.
E’ doloroso prendere consapevolezza che la ferita di questo paese è il suo essere profondamente inospitale. Non solo per chi arriva cercando un primo approdo sicuro, ma anche per la stessa popolazione italiana, soprattutto quella che rappresenta l’oggi con più prospettiva; quella su cui sarebbe naturale, in una nazione sana, investire per migliorare la qualità di vita di tutti: i giovani.
E non vorrei che il tutto si riducesse alle “questioni economiche”. In realtà sono questioni profonde che hanno a che fare, come per i migranti, con aspetti esistenziali quali la dignità, che si esprime in mille rivoli di svalutazione a partire da una certa idea di educazione, rispetto, deferenza, fino a forme più conclamate di denigrazione, manipolazione e violenza.
Da qualche tempo sto cercando di riflettere e approfondire questo fenomeno di maltrattamento generale che la collettività attua su se stessa, osservato attraverso le lenti delle teorie della pedagogia nera e della trasmissione transgenerazionale del trauma. Per ciò che riguarda la popolazione italiana mi domando se una sostanziale parte di questa, altrimenti inspiegabile, violenza, nasca dalla rimozione del dolore per essere stati una popolazione a lungo estremamente povera e arretrata che doveva spingere fuori i propri figli per, letteralmente, sopravvivere.
Ecco, diciamo che in queste condizioni è difficile sviluppare sentimenti nutrienti come empatia, affetto e cooperazione. Se si nasce con la fame nelle viscere non si riesce a pensare ad altro che a sopravvivere anche a scapito dell’altro. Diverso è se si sperimenta la stessa privazione in una fase più avanzata dell’esistenza, dopo aver ricevuto cibo e nutrimento emotivo.
C’è qualcosa, di questa fame atavica, in questo terrore che le risorse non siano abbastanza e che quindi che non si possano condividere se non a scapito della vita stessa che, nonostante la situazione italiana nelle ultime tre generazioni sia migliorata molto e non si muoia più di fame, domina ancora e rende aridi. Siamo dominati dalla paura e finché non lavoreremo su questo trauma collettivo sarà difficile realizzare progetti a favore del paese che non vengano poi cannibalizzati, come fu per Olivetti o Riace. Che quei modelli siano esistiti è stato in ogni caso un grande dono. E, della bellezza che hanno saputo seminare, e di uno sguardo diverso su stessi, quei territori beneficiano ancora oggi, seppure in modalità più contenuta.
In quest’ottica, una riflessione che mi sembra calzante è che i giovani che se ne vanno si sottraggono, sanamente, ad un martirio non necessario e questo pensiero, con le dovute limitazioni di generalizzazione, apre a interessanti ipotesi per future ricerche.
Sulla scia di questi pensieri forse un po’ densi ma, spero, di stimolo, mi sento molto vicina al focus del RIM 22.
Quest’anno il tema è Rappresentanza e Partecipazione.
Questo tema, ad un primo sguardo, può richiamare immediatamente l’attività politica, ad un’osservazione più approfondita richiama un tema esistenziale che riguarda l’essenza stessa della persona in relazione ai complessi contesti in cui è immersa.
Abbiamo molto da fare, ci serve il coraggio.