La fatica di tornare a scuola

La fatica di tornare a scuola, con un futuro incerto all’orizzonte, dopo un anno di DAD

la fatica di tornare a scuola

Suona il telefono. La madre di un ragazzo di 15 anni mi dice che con la ripresa delle lezioni in presenza il figlio ha ricominciato ad avere mal di testa e non vuole andare a scuola. Era già successo a Gennaio, con la ripresa dopo le vacanze di Natale. In quel caso aveva nausea e mal di pancia. Un’altra ragazza di 16 anni ha un crisi di panico la sera prima di rientrare in classe. “Non possono dirmi il sabato sera che lunedì si va in presenza – mi dice – ho bisogno di tempo per adattarmi”.
Poi c’è Sara, il nome è di fantasia, che va a scuola per tutta la settimana ma non si sente bene. Tutte le sere è presa da una profonda ansia che non riesce a controllare. E Francesca, che ha un attacco di panico il giorno in cui la sua classe torna in presenza al 100%. Mi racconta che tutte quelle persone nello spazio ristretto della classe le hanno fatto mancare il respiro. 

 

Ne ho ascoltate tante di storie di ragazzi e ragazze che hanno sofferto l’ultima riapertura in presenza. Molti altri non hanno avuto problemi, è vero, e sono tornati in classe senza fare troppa fatica. Ma per deformazione professionale il mio sguardo non può fare a meno di soffermarsi sulla fatica, sulla sofferenza, sui percorsi non lineari. Perché la loro difficoltà non è solo l’espressione di un disagio personale, ma un campanello d’allarme per tutti.

Svegliarsi la mattina, vestirsi, prendere il pullman, affrontare lo sguardo dei compagni, lo stress della scuola, stare seduti dietro a un banco con la mascherina…sono azioni tutto sommato semplici. Se togliamo la mascherina, possiamo dire che fino a prima del coronavirus erano gesti quotidiani. Ma la vita “normale” nell’ultimo anno si è interrotta e ha costretto tutti, ragazzi compresi, a cercare significati nuovi. Abbiamo dovuto mettere in discussione ciò che facevamo e le nostre azioni, anche quelle comuni, hanno cominciato ad avere un peso differente.

Paolo mi dice ad esempio che non riesce a immaginarsi di tornare a scuola tutti i giorni. Gli chiedo il perché, visto che fino a un anno fa quella era la sua quotidianità. “Non saprei – mi risponde – penso sarebbe troppo faticoso andare tutti i giorni senza pause”.

 

Le scuole hanno cominciato a chiudere per la prima volta a Febbraio 2020. Era il 24 Febbraio, un lunedì nel mezzo delle feste di carnevale. Qualche giorno prima a Codogno, in Lombardia, erano stati accertati i primi casi di coronavirus. La notizia della chiusura non ha sconvolto più di tanto i ragazzi che anzi hanno preso quelle prime settimane di pandemia come “un secondo Natale. Una settimana di vacanza nel bel mezzo dell’anno”. L’ho raccontato in un mio recente libro, Tutti a casa. Amici, scuola, famiglia: cosa ci ha insegnato il lockdown (Feltrinelli, 2020). In questo libro, un saggio rivolto ai ragazzi, ho raccolto le testimonianze di tanti adolescenti sparsi per la penisola.

Una ragazza mi ha detto che “i primi giorni sono stati bellissimi. La scuola non apre, è chiusa per una settimana. A noi che eravamo felici quando saltavamo anche solo un’ora di lezione, stare a casa tutta la settimana è sembrato un miracolo”. Poco dopo, però, aggiunge che con il passare dei giorni “abbiamo capito che stavamo perdendo qualcosa di fondamentale e ci siamo ricreduti”. 

 

È passato un anno da quelle piacevoli chiacchierate che ho raccolto nel libro. Nel rileggerle oggi percepisco in sottofondo il desiderio e la speranza che tutto potesse terminare, che l’estate si portasse via il virus. Che a Settembre la scuola sarebbe tornata come sempre, senza computer, tablet e smartphone a fare da schermo. Non è andata così, lo sappiamo. A Settembre si è ripartiti, ma poco dopo si è chiuso. Per poi riaprire, richiudere e riaprire ancora. Prima al 50% e poi al 70% con alcune classi al 100%. 

 

So bene che la scuola non ha mai chiuso. Che c’è stata la Didattica A Distanza e che professori e ragazzi hanno portato avanti lo stesso l’anno in questo modo. Ma faccio fatica, come forse fanno molti ragazzi, a riconoscere la scuola nella DAD. Forse è di nuovo per una mia deformazione professionale, lo so, ma mi sembra che se eliminiamo la relazione dalla scuola abbiamo di fatto eliminato anche la scuola. Perché la scuola è prima di tutto relazione, così come lo è la vita di ogni persona. Senza relazione, semplicemente non esistiamo. E la DAD fatica a creare relazione tra le persone. Genera scambio, interazione, dialogo, confronto…ma ha un problema con la relazione. 

 

Lo scrive Massimo Recalcati in un recente articolo per Repubblica. “Nessun tempo come il nostro ci ha insegnato che la relazione in qualunque organizzazione – scuola compresa – non è un ornamento secondario rispetto al raggiungimento dei propri obiettivi, ma la sua condizione di possibilità. Dunque i docenti non farebbero torto alla loro professione se subordinassero la programmazione didattica al recupero del valore umano della relazione. È un mio accorato appello che rivolgo a loro e ai dirigenti scolastici: subordinate, vi prego, il rispetto dei programmi alla cura della relazione perché la didattica senza relazione non può esistere”.

Non è allora questo il campanello d’allarme che dobbiamo ascoltare? I ragazzi che faticano nel tornare a scuola non ci stanno forse dicendo che la relazione tra loro e l’Altro, compagni, professori, la stessa scuola, è venuta meno?
Che senza quel legame relazionale anche i normali gesti quotidiani, alzarsi, prepararsi, stare in classe, diventano molto faticosi da eseguire? Di nuovo, è la relazione a dare un senso ai nostri gesti.
Comprendere questo punto è molto importante. Forse ci aiuterebbe a non trattare i ragazzi come delle pedine che stanno nel posto in cui le metti. Ci aiuterebbe ad ascoltarli di più.

 

Riprendere la scuola, tornare a una sorta di normalità, richiede anche una grande fiducia nel futuro. Vale per qualsiasi investimento, finanziario e no: se non si riesce a vedere il futuro, si fa fatica a investire tempo, denaro e risorse. Ripartire, per un ragazzo, significa tornare a investire nella relazione. A seconda dell’età e delle caratteristiche di ciascuno, questo investimento avrà poi un costo differente. Per qualcuno sarà più facile, per altri più impegnativo. Il problema di fondo, però, è che non è facile investire nella relazione in un periodo in cui domina l’incertezza.  

 

Provo per un attimo a mettermi nella testa di un ragazzo. 

Mi dite di tornare a scuola, ma per quanto tempo? E se poi richiudono? E a Ottobre si ripartirà con la DAD? Riuscirete a vaccinare le persone fragili in tempo utile per permetterci di ripartire con la scuola? E i mezzi pubblici? Li potenzierete, oppure come avete quest’anno resteranno ancora così? E le classi pollaio? Non mi è chiaro il motivo per cui alcune classi vanno al 100% mentre altre devono andare al 50%..

 

L’incertezza non dipende solo dal virus, ma anche dal modo in cui, come adulti, siamo riusciti a intervenire per cercare di limitarne i danni. Ridurre per quello che ci è possibile l’incertezza, attraverso interventi mirati alla salvaguardia della scuola e al garantire spazi adeguati, deve allora essere una priorità. Se non per quest’anno, che ormai volge al termine, almeno per il prossimo. Perdere ulteriore tempo potrebbe essere davvero dannoso. 

 

Il compito dei prossimi mesi sarà dunque quello di ricostruire uno spazio di fiducia tra il ragazzo e l’Altro: con la scuola, i professori, i suoi compagni di classe. Perché senza relazione, non ci può essere didattica. Evitiamo di considerare la fatica dei ragazzi che non vogliono o non riescono a tornare in classe come il gesto di una generazione svogliata, pigra. La scuola era già malata prima del coronavirus, lo studiare come valore era già in discussione. Un anno di DAD ha letteralmente rotto ciò che si reggeva in piedi in precario equilibrio. Da un certo punto di vista, potrebbe anche non essere un male. Questo però è il tempo di ricostruire. Partendo dall’ascolto di questa fatica e immaginandoci che appartenga a tutti. Anche a quei ragazzi che hanno avuto ottimi voti in DAD.

 

di Alberto Rossetti

 

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