Lavorare per NHS in Regno Unito ai tempi della pandemia

Salari decisamente più alti e opportunità di crescita professionale: come si lavora per NHS, il sistema sanitario più grande d’Europa

Lavorare per NHS (National Health System), il sistema sanitario nazionale britannico, è meta ambita per molti infermieri, ma anche medici e personale sanitario amministrativo. Prima o poi, infatti, tutti guardano il paese d’oltremanica come il luogo dove è possibile percepire salari decisamente più alti e commisurati al costo della vita rispetto al nostro paese, fare carriera e avere la percezione che i propri sforzi sono davvero riconosciuti.

Un mito che ha delle vere fondamenta, se pensiamo che anche oggi, nonostante il periodo difficile a causa dell’epidemia di Covid-19, il sistema riesce a garantire per i suoi dipendenti un trattamento sicuramente più favorevole rispetto a quello italiano. 

Claudia, italiana a Londra da 11 anni, ci racconta la sua esperienza di crescita a Londra, da neolaureata assunta nel NHS, che l’ha portata ad assumere un ruolo amministrativo nei reparti di terapia intensiva durante l’emergenza sanitaria Covid-19 nel 2020.

UK: il paese dei traguardi accessibili

Claudia è nata e cresciuta a Roma, cittadina italiana di genitori originari della Sierra Leone e dopo il liceo ha scelto di frequentare l’università in Inghilterra, nella facoltà di Relazioni internazionali e cooperazione allo sviluppo.

“Inizialmente sono stata letteralmente rapita da questa nuova realtà” , racconta. Una città così vivace e interculturale: qui trovi davvero tutte le nazionalità, e tra queste, tantissimi italiani.

Londra mi ha colpito nonostante non provenissi da una piccola realtà, anzi, sono cresciuta a Roma, la capitale. 

Da figlia di immigrati, però, ho avuto da subito l’impressione che il Regno Unito offrisse più opportunità a tutti coloro che scelgono di investire qui le proprie energie, al di là delle proprie origini e del colore della pelle.

Roma è una città multietnica, ma ero abituata a vedere la maggioranza degli immigrati provenienti dai paesi africani limitarsi solo ad alcuni tipi di mestiere: lo stesso vale per i bengalesi, per i pakistani, per i cinesi e per le persone dell’est-Europa.

Ho capito subito che per me, italiana di origini sierraleonesi, l’accesso a posizioni adeguate al mio titolo di studio sarebbe stato più raggiungibile qui rispetto all’Italia, paese che amo e a cui sono legata, di cui però riconosco i limiti”.

Lavorare nel NHS

Poco dopo la laurea, Claudia trova trova un impiego nell’amministrazione in un ospedale pubblico londinese, come dipendente quindi del NHS (National Health System), il più grande sistema di sanità pubblica in Europa. 

“Dopo un paio d’anni di impiego, sono salita di livello e mi sono occupata di coordinare il personale, con un ruolo di mediatrice tra mediatori tra gli health providers presenti sul territorio (ovvero tra i medici di famiglia e gli altri professionisti che lavorano per la sanità pubblica). 

Qui la maggior parte della popolazione si rivolge al sistema pubblico. 

Le strutture private sono poche e poco accessibili economicamente: a differenza dell’Italia, il divario tra pubblico e privato è enorme, si può arrivare a spendere tra i 200 e 400 pounds per una visita, e lo stesso vale per le analisi di laboratorio. Si tratta di un sistema liberista, e laddove il pubblico non riesce a garantire il servizio, il privato lucra.

Purtroppo anche qui il governo ha tagliato i finanziamenti e il Covid ha portato ritardi nelle visite e per gli interventi non considerati urgenti. 

Vista la grande spesa che lo Stato investe nella Sanità, anche qui si cerca di risparmiare dove possibile, a discapito delle visite di prevenzione che non sono considerate necessarie.

Insomma, in assenza di sintomi, difficilmente i medici di base prescrivono visite o analisi per un fare check up, a parte gli screening previsti per le patologie o i tumori più diffusi”.

L’emergenza Covid in prima linea

Il modello inglese per limitare l’epidemia è stato più volte messo in discussione e criticato dai paesi, come l’Italia, che hanno scelto misure più restrittive. 

Tuttavia, per i sanitari che hanno vissuto l’emergenza in prima linea, la situazione è stata critica come altrove. 

“A marzo 2020, il reparto e gli uffici in cui lavoravo sono stati temporaneamente chiusi” , spiega Claudia. 

Mi hanno proposto di occuparmi della gestione dei rifornimenti dei dispositivi medici nelle terapie intensive. Ho accettato di buon grado, mi sembrava un’occasione per rendermi utile. Credevo però che il mio lavoro si sarebbe svolto in ufficio, invece non è stato proprio così.

Mi sono immediatamente ritrovata catapultata nell’emergenza: il mio incarico era quello di monitorare gli stock di dispositivi di protezione e materiale medico presente nella terapia intensiva e provvedere subito ai nuovi ordini. 

Purtroppo le scorte di materiali che prima duravano un mese, a causa dell’aumento esponenziale dei ricoveri, terminavano in pochi giorni. 

Per monitorare e rifornire gli stock trascorrevo quindi molto tempo nella terapia intensiva, dotata di maschera e tuta anti-Covid, muovendomi tra le persone ricoverate: molti di loro, con la schiena nuda e in posizione prona, sembravano senza vita. 

Ho visto parenti dire addio ai propri cari in lacrime, e tanti infermieri e medici piangere. 

È stata un’esperienza davvero intensa per me, non ero assolutamente preparata. Lavoravo 7 giorni su 7, e non ho avuto un riposo per tre mesi. 

Lì dentro ho capito davvero la gravità di quello che stavamo vivendo, e che la mia percezione dell’emergenza era completamente diversa rispetto a tutti coloro che stavano fuori dall’ospedale e che leggevano soltanto le notizie sui numeri dei decessi e dei ricoveri. Solo chi aveva un parente in ospedale o chi lavorava in prima linea riusciva a capire davvero la gravità dell’emergenza”.

UK: un paradiso per gli infermieri?

Nonostante la sanità sia prevalentemente pubblica, il Regno Unito resta una destinazione ambita per gli infermieri e il personale sanitario in generale. 

Lavorare per il NHS, infatti, garantisce un salario base pari al doppio di quello italiano: si parte da circa 2500 sterline per i neolaureati, contro lo stipendio medio di un infermiere alla prima esperienza in un ospedale italiano, che raramente supera i 1500 euro. 

Ricevere l’incarico attraverso le agenzie di collocamento, sempre per impieghi negli ospedali pubblici, significa ricevere generalmente un salario ancora più alto (in quanto ci si rivolge alle agenzie se c’è carenza di personale) ed è decisamente più alto per chi sceglie il privato. 

“È vero che la vita a Londra è più cara, ma i salari inglesi vengono ogni anno adattati all’inflazione e all’aumento dei prezzi. 

Inoltre, non si tratta solo di una questione di salario: dopo soli due anni di servizio, infatti, è possibile salire di livello e responsabilità, e quindi di salario. Un’opportunità raggiungibile sicuramente più rapidamente rispetto all’Italia. 

Gli shifts, i turni, prevedono un impegno di circa 37 ore settimanali, il servizio di notte viene pagato di più raggiungendo il doppio nel weekend.

Per questo motivo nel corso della mia esperienza lavorativa ho incontrato tantissimi sanitari, soprattutto infermieri, provenienti dall’Italia”.

Insomma, il salario inglese valorizza di più le persone che scelgono la professione sanitaria, e tornare ad adeguarsi alle condizioni del proprio paese d’origine non è facile. Nel caso di Claudia, però, la differenza non la fa solo la condizione economica.

“Anche in Inghilterra sono stata vittima di razzismo” , spiega. 

“Nonostante Londra sia una città cosmopolita, il razzismo è ovunque. In un ambiente lavorativo però è difficile che qualcuno faccia battute poco gradite sul colore della pelle o sulla provenienza, cosa che invece in Italia può accadere. 

A volte ho l’impressione che gli inglesi evitino i commenti sgradevoli perché sono ‘politically correct’, e questo, da romana, a volte mi infastidisce. Tuttavia ci si sente più tutelati dalla legge. 

Purtroppo non esistono paesi liberi dal razzismo, ma qui mi sento più protetta e soprattutto credo di avere più accesso alle opportunità basate sul mio titolo di studio, la mia esperienza e le mie ambizioni. Oggi frequento anche un master in finanza e ho deciso che, per il momento, è questo il paese in cui voglio investire”. 

 

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