Parole del quotidiano
È un punto su cui abbiamo già riflettuto, ribadendo la nostra prospettiva nell’articolo Tutte le nuances della nostalgia: la scelta delle parole da dire (o da non dire) necessita di particolare attenzione e influenza il riconoscimento della propria identità e del parlare di se.
Alcune persone, più di altre, prestano un’attenzione particolare all’uso delle parole nella quotidianità.
Per esempio in contesti in cui emerge la necessità di caregiving, come nel caso di figli/e con support needs, tematica toccata nell’intervista a Simona, mamma di un bimbo autistico in Irlanda.
Simona e Stephen, genitori di Lochlainn, una volta ricevuta la diagnosi di autismo per il proprio figlio, hanno iniziato un percorso formativo e informativo, sanitario e burocratico, per garantire al piccolo la sicurezza e l’appoggio necessari allo sviluppo del piccolo.
Oggi Simona descrive il proprio figlio con il termine “autistico”, secondo il modello di linguaggio inclusivo Identity-first.
I modelli identity-first e person-first: cosa significa
I modelli Person-first e Identity-first rappresentano i due principali approcci per descrivere in modo appropriato il rapporto tra persona e disabilità.
“Persona con disabilità” è un’espressione che appartiene al primo modello. “Persona disabile” rientra nel secondo.
Con person-first language si intende una pratica linguistica in cui viene anteposto il termine “persona” a qualsiasi altra specifica riguardante la disabilità. Per esempio: “persona con una disabilità cognitiva” o “persona con paraplegia”.
Alla base dell’utilizzo di questa forma c’è l’idea che il soggetto a cui ci si sta riferendo sia, prima di tutto, una persona.
Enfatizzando ciò che una persona “ha” rispetto a ciò che una persona “è”, viene veicolato il messaggio che la disabilità è solo una parte del soggetto, un tratto, un elemento secondario che concorre alla sua identità complessa e articolata.
Al contrario, definire la persona utilizzando un aggettivo riferito alla disabilità (per esempio: “persona sorda”) potrebbe rinforzare un senso di inferiorità rispetto a persone che non hanno disabilità o trasmettere l’idea che si tratti di una caratteristica immutevole, permanente, irreversibile. E ciò non è sempre vero.
Il modello identity-first prevede, invece, che il termine riferito alla disabilità sia il primo a comparire (almeno nella costruzione della frase in inglese): “autistic person”, per esempio. Anche in italiano il focus rimane sulla caratteristica (“persona autistica”).
Chi preferisce questo modello sostiene che nominare apertamente la disabilità permetta di destigmatizzarla e normalizzarla, ponendola allo stesso livello di altri aspetti identitari rilevanti ma che non corrispondono alla totalità della persona e che, in nessun caso, dovrebbero essere pretesto per discriminare (per esempio razza, genere, religione ecc.).
Secondo il modello identity-first, la disabilità non è una “aggiunta” alla persona ma parte intrinseca della sua identità.
Per spiegare il modello identity-first possiamo prendere in prestito le parole di Rachel Klentz che, sul portale The Disability Union, scrive:
“Sono ciò che sono per via della mia disabilità. Non è possibile separare la mia disabilità da me. Certo, non è tutto ciò che sono, ma si riflette in tutto ciò che faccio, dico, penso e sento. Sono sulla mia sedia a rotelle tutto il giorno. Ho un cane guida. Ma sono anche un’artista, una scrittrice, un’amica e una persona che dà affetto”.
Questione di scelte
Anche se le differenze dal punto di vista linguistico possono sembrare minime, queste due modalità si basano su presupposti ideologici diversi.
Scegliere di utilizzare il primo o il secondo modello denota un posizionamento rispetto alla tematica, in quanto, coscientemente o meno, stiamo facendo uso di un linguaggio con una connotazione politica.
Non c’è un modo giusto o uno sbagliato, ma è sempre bene esserne al corrente.
Scegliere il modello person-first o identity-first può essere anche legato al tipo di contesto, di disabilità o ad altre caratteristiche della persona.
In alcuni contesti, come in quello medico, si privilegia l’utilizzo del linguaggio person-first, considerandolo una soluzione standard e sicura in molte situazioni. Per esempio, è il modello a cui si rifanno le maggiori organizzazioni nell’ambito della salute, come l’OMS e il Ministero per le disabilità.
Il linguaggio identity–first è, invece, più recente e meno comunemente accettato e diffuso al di fuori delle comunità di persone disabili. Nasce per auto-definirsi e per riconoscersi, mostrando orgoglio per la propria appartenenza.
Chi preferisce il linguaggio identity-first, critica all’approccio person-first il fatto di ridimensionare la presenza di disabilità nella persona a partire dall’assunto che sia una caratteristica negativa.
Il criterio da tenere a mente nella scelta, quello che dovrebbe sempre venire first (prima), dovrebbe essere come la persona desidera essere identificata.
Nel dubbio, la cosa migliore da fare è chiedere al/alla diretto/a interessato/a. Nonostante possa apparire un modo invasivo e poco gentile, è in realtà un approccio diretto che denota rispetto.
Special needs e support needs
In ambito educativo e di cura sentiamo spesso parlare di “bisogni speciali”. Nel contesto scolastico italiano, infatti, con BES si fa riferimento a quei “Bisogni Educativi Speciali” che possono essere manifestati da ogni alunno/a – con continuità o per periodi circoscritti di tempo – e che possono emergere per una molteplicità di motivazioni (fisiche, biologiche, fisiologiche, psicologiche, sociali), anche in combinazione fra loro.
A queste necessità, la scuola ha il dovere di rispondere attraverso modalità personalizzate.
L’espressione special needs, usata in modo generico per riferirsi a difficoltà di varia natura e con un differente grado di severità, è stata oggetto di critiche nel corso degli anni. In particolare, si intravede nel termine “speciale” il tentativo di addolcire condizioni implicitamente reputate spiacevoli e svantaggiose, e di evitare termini come “disabile” e “disabilità” attraverso un giro di parole.
Questa posizione si basa sugli stessi presupposti del modello identity-first, in cui la disabilità è vista come parte intrinseca all’identità della persona.
Inoltre, al contrario del termine disabilità, che ha un significato netto e formalmente riconosciuto, la locuzione special needs non ha un significato legale.
Il costrutto psicologico di “support needs” invece, si contrappone alla visione mistificatrice delle disabilità promossa dall’espressione special needs. La premessa è che tutte le persone hanno diversi bisogni di supporto (per tipologie e gradi) e questi costituiscono la differenza principale tra persone disabili e non disabili.
Affinché una persona funzioni al meglio, è necessario che il supporto sia commisurato ai suoi bisogni, obiettivi e desideri.
In questo ambito, per “funzionamento” si intende la congruenza tra richieste del contesto e possibilità individuali; se, per via di una combinazione di fattori personali e ambiente, il funzionamento è limitato, si rende necessario un supporto.
A partire dalla valutazione dei bisogni di supporto del singolo, vengono sviluppati piani di supporto individuali.
Il concetto di support needs fa, quindi, un passo oltre rispetto al modello dei bisogni speciali.
Perché è un dato di fatto: tutti e tutte abbiamo dei bisogni. Tutti i bisogni possono essere considerati, a loro modo, speciali.
O, forse, dovremmo dire che non ci sono “specialità” ma “specificità” di cui aver cura.
Link utili
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Access ATE – Person-First vs. Identity-First Language
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Covering Health – Identity-first vs. person-first language is an important distinction
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Union disability – PERSON-FIRST OR IDENTITY-FIRST: THE IMPORTANCE OF LANGUAGE
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Does Language Matter? Identity-First Versus Person-First Language Use in Autism Research: A Response to Vivanti
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Person first e Identity first
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Osservatorio ministeriale disabilità
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Ministero per le disabilità
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