Sul perché i ragazzi devono uscire di casa e tornare a vivere la strada

La famiglia è sempre più chiusa all’interno della propria casa e fatica a fidarsi di ciò che si trova all’esterno. I bambini e i ragazzi passano così sempre più tempo in casa, riducendo in questo modo l’esperienza che solo l’incontro con l’altro può offrire. I ragazzi devono uscire di casa

uscire di casa

La pandemia in corso non è la causa di questo processo di isolamento, ma lo ha certamente accelerato rendendolo ancora più evidente. Perché come genitori abbiamo paura che i ragazzi escano di casa? E come possiamo fare in modo che gli adolescenti tornino a vivere la strada? Una strada fatta di relazioni, incontri, curiosità nei confronti della diversità.
L mia mente ha cominciato a vagare. L’ho lasciata correre indisturbata, certo che da qualche parte mi avrebbe portato. A un certo punto ho messo a fuoco l’oggetto di quel mio errare. Stavo pensando al viaggio. Ero partito dalla casa, ma pensavo al viaggio. Incuriosito da questa strana circostanza, sono andato a rileggermi una definizione di viaggio che trovo molto significativa. L’ha scritta il padre dell’antropologia contemporanea, Claude Lévi-Strauss, all’interno di  un testo che trovo di una bellezza infinita, Tristi Tropici. 

“Si considerano generalmente i viaggi come degli spostamenti nello spazio. È troppo poco. Un viaggio si inserisce simultaneamente nello spazio, nel tempo, e nella gerarchia sociale”.

Mi sono legato a questa definizione durante un viaggio in Uganda nel 2014. In quella circostanza ho percepito sulla mia pelle cosa significasse spostarsi nello spazio, ero a migliaia di km da casa; nel tempo, mi trovavo sull’equatore e le giornate erano perfettamente scandite in 12 ore di sole e 12 di buio; nella gerarchia sociale, per gli ugandesi ero un Musungu, un uomo bianco. L’unico modo che avevo per poter entrare in contatto con quella stupenda nazione e i suoi abitanti era sospendere i miei riferimenti culturali. Il mio mondo si era capovolto come mai aveva fatto prima. E da quella prospettiva ho finalmente potuto guardarmi in modo nuovo e uscire di casa.

 

La casa per gli adolescenti

Partire dal viaggio per raccontare la casa può sembrare un esercizio bizzarro. Ma a ben pensarci è solo da debita distanza che riusciamo a avere un buon punto di osservazione su ciò in cui siamo normalmente immersi. Così, anche la casa ha dei confini più chiari quando ne siamo fuori, quando ci troviamo in viaggio, per strada. Viaggiare serve anche a questo: a ritrovare la propria casa. 

Molto più difficile, invece, è osservare la propria casa standoci dentro. Il rischio è quello di perdersi, di non ritrovarla, di non riuscire più a definirne i confini. A tutto questo dobbiamo aggiungere che la casa, nell’ultimo anno e mezzo, è diventata anche un luogo di studio, di compiti in classe, di interrogazioni, di svago, di sport, di relazione, di affettività, di gioco. Uno spazio di tranquillità per alcuni, di chiusura e ansia per altri.
Se prima si usciva di casa per andare a incontrare il mondo, con la pandemia il mondo ce lo siamo ritrovati dentro casa. Ma questo nuovo movimento, che possiamo definire da fuori a dentro, che effetto sta avendo sui ragazzi? Su quegli adolescenti che invece sono spinti a muoversi in direzione contraria, cioè da dentro a fuori, dalla casa alla strada? come uscire di casa?

 

“Sono io l’unica mamma di adolescenti a cui mancherà tantissimo il coprifuoco delle 22?”

Qualche giorno fa, ho assistito a uno scambio di tweet che mi ha molto divertito. Una mamma ha scritto: “Sono io l’unica mamma di adolescenti a cui mancherà tantissimo il coprifuoco delle 22?”. Tanti altri genitori le hanno risposto che no, non è l’unica. I mesi con i figli costretti in casa, o comunque obbligati a non rientrare dopo le 22, sono stati un toccasana per l’ansia di molti genitori. Poi però, in mezzo a tanti genitori che solidarizzavano con la mamma autrice del tweet, è arrivato quello di un papà che andava in direzione diametralmente opposta. “Ma anche no – ha twittato – che tornino a stare fuori casa. Quello è il loro posto”.

Penso che il primo tweet fosse ironico, così come molti dei punti di vista espressi. Non è quindi mia intenzione dare un giudizio su quanto ho letto. Però l’ironia, lo sappiamo, si porta dietro tracce di verità. E quello scambio di tweet ci può dire molto sul posto che la casa ha avuto in questi mesi per i ragazzi e i loro genitori. E sul perché è bene che i ragazzi ricomincino ad uscire di casa.

 

La casa come luogo di tranquillità. Ma con quali conseguenze?

Nessuno può dirsi contento di aver passato tutto questo tempo tra le mure domestiche. Ma per molte persone la casa è diventato una sorta di rifugio. Un posto in cui poter stare tranquilli. Se la vita all’esterno richiede di mettersi in gioco e affrontare i propri limiti, la sospensione di quasi ogni rapporto con il fuori potrebbe avere restituito un po’ di tranquillità.
Ma l’adolescenza è quel periodo della vita in cui un ragazzo si stacca dai genitori, in cui gli amici diventano la sua prima famiglia. Per molti genitori, questo movimento di emancipazione dei figli non è per niente facile da affrontare. Ecco perché l’avere i ragazzi a casa il sabato sera, il giocare a Risiko insieme e il condividere il divano, può avere restituito tranquillità.

Qualcosa di simile è capitato anche ai ragazzi stessi. La scuola, gli amici, lo sport e le uscite serali.. sono momenti potenzialmente belli. Ma anche molto stressanti. Richiedono lo stare in relazione, il confronto con se stessi e i pari, il dover assumersi delle responsabilità. Fare delle scelte. Tutte cose che i ragazzi hanno sempre fatto con più o meno fatica, ma che la pandemia ha sospeso. Mettendo la casa, la famiglia, al centro della loro vita.   

 

Troppa famiglia fa male. Sul perché i ragazzi devono uscire di casa

Laura Pigozzi, psicoanalista e saggista, ha da poco pubblicato un libro che ho trovato molto interessante. Il titolo è Troppa famiglia fa male. Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini). Curioso che questo libro sia uscito a pochi mesi dalla fine del lockdown. È la stessa autrice a sottolinearlo: “Proprio mentre mi accingevo a scrivere questo libro sugli effetti del plusmaterno nei confronti della polis, mettendone in luce la minaccia all’umanizzazione futura, ecco arrivare la chiusura alla città come principale presidio salvavita”.
Per plusmaterno, Pigozzi intende un una forma di relazione simbiotica, quasi fusionale, tra il genitore e il figlio. Una relazione di dipendenza reciproca che si sostituisce a quella simbolica della cura: “la coccola infinita e il controllo feroce – le cose vanno insieme – al posto della promozione dell’indipendenza nei figli”.

Una delle tesi del libro di Pigozzi, su cui mi trovo pienamente d’accordo, è che negli ultimi anni ci si sia chiusi all’interno delle proprie case. La famiglia è diventata il centro della vita e ha messo sempre di più in discussione il sociale attorno a lei. La scuola in primis, considerata obsoleta, vecchia, non più adatta per i propri figli. E poi la salute.
Si pensi alle prese di posizione dei no vax che sostengono di avere il diritto di scegliere cosa fare sui propri figli mettendo così in discussione quel patto di fiducia che crea e sorregge la nostra comunità. Ma anche a tutte le polemiche sulle mense scolastiche che hanno portato il “panino della mamma” a essere migliore del menu pensato dall’Istituzione scolastica insieme a dei professionisti. Come si può vedere ci siamo chiusi in casa, arroccati nelle nostre certezze e sospettosi nei confronti dell’esterno, molto prima dell’arrivo del coronavirus.

 

La casa è diventata un luogo chiuso verso l’esterno

Per placare l’ansia, per un eccesso di (in)sicurezza, per il timore che i figli possano crescere infelici e inadatti, ci si è ritrovati così ad alzare delle vere e proprie barricate nei confronti dell’esterno. Abbiamo erroneamente pensato che la loro felicità dipenda quasi esclusivamente dai genitori. Che poi è un altro modo di definire quello che la psicoanalista Laura Pigozzi teorizza come plusmaterno: un eccesso di amore che impedisce ai figli di uscire a esplorare il mondo. Un attaccamento simbiotico al figlio che non permette di fare delle esperienze all’esterno della famiglia. Anche perché se l’interno è l’unico luogo di pace e tranquillità, lo spazio della verità, l’esterno non può che essere un luogo insicuro, dove occorre stare attenti alle persone. 

La pandemia, poi, ha fatto il resto. L’esterno è diventato a tutti gli effetti il luogo del contagio mentre la casa, la famiglia, il luogo della protezione. Tra l’altro ormai è evidente anche la precarietà di questa narrazione dal momento che ci siamo accorti che il luogo in cui ci si infetta di più è proprio la casa. Mentre all’esterno, stando ad alcune ricerche, la probabilità di contrarre il virus è bassissima.
Certo, si potrebbe ancora dire che il virus è portato da fuori e che si stesse tutti a casa, come tra l’altro abbiamo fatto durante il lockdown, non entrerebbe. Ma è davvero possibile pensare alla casa e alla famiglia in questo modo? Un luogo chiuso ermeticamente, in cui i suoi membri passano tutto il giorno all’interno e da cui è impossibile uscire. Sarebbe uno scenario terribile, anche solo da immaginare. E creerebbe, mi trovo ancora d’accordo con Pigozzi, pessimi cittadini. 

 

I ragazzi devono tornare a vivere la strada

La pandemia non è dunque l’unica causa di questa chiusura in casa. Ma ha avuto il merito, se così si può dire, di farla emergere. Quello che io auspico, che poi è anche secondo me l’obiettivo su cui come comunità dovremmo lavorare, è che adesso i ragazzi tornino a vivere la strada. Che escano, che riprendano quel movimento di separazione dalla famiglia che consente di riconoscersi come soggetti.
Non penso che questo periodo sia stato per loro un anno perso. A patto che adesso gli si permetta di viaggiare, di guardare la propria casa dall’esterno. Insomma, per riprendere quel papà incontrato su Twitter, “che tornino a uscire di casa. Quello è il loro posto”.

di Alberto Rossetti    

 

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