Parlare del sesso come lavoro scatena sempre reazioni forti e contrastanti.
Un argomento indubbiamente controverso e delicato che, in questo spazio, proviamo a osservare da una prospettiva sex positive. Senza giudizio. E cercando di sfatare qualche mito.
Intorno alla tematica del sex work ruotano un’infinità di luoghi comuni e pregiudizi. Le opinioni sono nette, sferzanti, i giudizi monolitici e senza sfumature, fondati perlopiù su rappresentazioni stereotipate.
E’ importante parlare di queste semplificazioni per decostruirle. Per acquisire consapevolezza rispetto allo stigma che colpisce le persone che lavorano in questo ambito e che, inconsciamente, contribuiamo a mantenere.
Per cambiare l’approccio nei confronti del lavoro sessuale, però, è necessario mettersi nella condizione di conoscerlo.
Prima di tutto, è importante fare chiarezza: cosa si intende con l’espressione “lavoro sessuale” o “sex work”?
Cos’è il sex work
All’interno di quest’etichetta trovano spazio molteplici attività: sex work non corrisponde unicamente alla prostituzione, ma a tutte quelle occupazioni, retribuite, legate all’industria del sesso. In italiano, l’espressione viene tradotta con “lavoro sessuale”.
Un termine da privilegiare rispetto a “prostituzione”, perché maggiormente inclusivo e non stigmatizzante. Descrive meglio la realtà multiforme del mercato del sesso e restituisce professionalità e dignità a lavori tipicamente condannati e considerati degradanti dalla società.
Rispetto al tradizionale “prostituta”, che rimanda implicitamente a criminalità e immoralità, “sex worker” è un’espressione più neutra, non connotata negativamente e non declinata soltanto al femminile.
Chi è, quindi, un/una sex worker?
Un/una lavoratore/lavoratrice adulto/a, retribuito/a per servizi sessuali o performance erotiche consensuali, in spazi offline oppure online, su base regolare oppure occasionale.
Ascoltando la voce di chi opera in questo campo, un altro mito da sfatare riguarda l’oggetto della compravendita nel lavoro sessuale.
L’attivista Giulia Zollino, operatrice di strada e sex worker, chiarisce che a essere venduto non è il corpo del/della sex worker, bensì un servizio.
“Noi siamo il nostro corpo. Il corpo lo usiamo sempre e per qualunque lavoro”, spiega in uno dei contenuti divulgativi sul suo seguitissimo profilo Instagram. Usare il proprio corpo è ben diverso dal venderlo.
Chi fa sex work è una soggettività a propria volta pensante, desiderante, capace di avanzare richieste e stabilire limiti e confini. Non è un oggetto in balia di chi compra”.
Chi sono i/le sex workers?
Nell’immaginario comune, alla sex worker corrispondono due possibili identità. La prima è quella di vittima (donna, di tratta, del sistema patriarcale, del proprio stesso stigma interiorizzato, della bestialità maschile).
Vi si contrappone quella di prostituta (donna) d’alto bordo, che fa soldi facili sfruttando il proprio corpo e la sessualità. Due filoni narrativi contrapposti e alimentati dai media che non catturano la complessità delle esperienze reali, le varie sfumature che stanno nel mezzo. Per esempio, banalmente, a fare sex work non sono solo donne. E a comprare i servizi non sono solo gli uomini.
Quello del consenso, però, è un punto centrale che permette di fare una prima grande distinzione tra ciò che è o non è sex work. Non tutti/e i/le sex workers, infatti, sono vittime di sfruttamento. Anzi: se il sex work è per definizione sesso consensuale, nessun sex worker, in teoria, può essere considerato vittima.
Lo ricorda Giulia Zollino: chi si occupa di lavoro sessuale offre un servizio che ha scelto di fare. E lo eroga entro certi confini da lui/lei stesso stabiliti, in maniera fluida, per preservare la propria sfera intima e privata.
Si tratta di un servizio concordato, limitato nel tempo; chi compra la prestazione non ha accesso incondizionato al corpo dell’altro/a. Se si oltrepassano questi termini, non si tratta più di lavoro sessuale ma di violenza.
Tratta vs sex work: due facce d’una stessa medaglia?
Un settore in cui poco avviene alla luce del sole è difficile, nella pratica, fare distinzioni così cristalline.
A volte i confini tra tratta e sex work sono molto labili, tanto che perfino due termini lontanissimi – autodeterminazione e abuso – paiono intrecciarsi.
Quelle della violenza e dello sfruttamento sono problematiche enormi e drammaticamente reali legate all’industria del sesso. Ma che non andrebbero sovrapposte ai lavori sessuali.
“L’abuso esiste nel sex work ma non definisce il sex work”, è quanto si legge nel Manifesto dei/delle Sex Workers in Europa. E’ un documento che rivendica il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. E che denuncia l’ipocrisia dell’attuale legislazione che criminalizza il lavoro sessuale, la quale ha pesanti ricadute sulle vite di chi, questo lavoro, lo sceglie. O è costretto a farlo.
La regolamentazione del mercato del sesso in Italia
A regolamentare il mercato del sesso, in Italia, è la legge Merlin del 1958. Il provvedimento determinò la chiusura delle case di tolleranza, promuovendo uno spostamento delle attività dai luoghi chiusi alla strada.
Oggi si assiste, a causa di politiche migratorie restrittive e politiche punitive attuate mediante multe e ordinanze comunali, a un ritorno al lavoro sessuale “indoor” e a un suo decentramento verso le periferie.
Lavoratori e lavoratrici si trovano, così, a erogare i servizi in ambienti poco sicuri. E’ un riflesso del modello “abolizionista” italiano. Lo scopo è abolire il lavoro sessuale non vietandolo ma rendendone complicato l’esercizio.
La legge Merlin risulta ambigua e non più attuale anche per un altro aspetto. Il lavoro sessuale non è vietato dal codice penale, ma alcune condotte collaterali come sfruttamento, agevolazione e adescamento sono illegali.
Michelangela Barba, presidente(ssa) di Ebano, associazione che si occupa di costruire percorsi di aiuto alle donne in condizione di marginalità, mette in luce un paradosso. “Lo sfruttamento della prostituzione, salvo che non sia aggravato da violenza fisica, è un reato contro la morale e non contro la persona.
Ciò ne fa un reato minore. Ma del decoro non ce ne frega niente. E’ importante invece sanzionare ciò che può sfruttare e danneggiare gravemente la persona”.
Questo modello di regolamentazione sembra fallire doppiamente. Da un lato, non si occupa di tutelare i/le sex workers che scelgono questo mestiere. Il sex work non è riconosciuto come lavoro “vero”, pertanto chi lo svolge è invisibile dal punto di vista dei diritti. Dall’altro, per chi è vittima di tratta, la legge non riesce a contrastare efficacemente il fenomeno dello sfruttamento.
“Solo nel momento in cui il lavoro viene formalmente riconosciuto, accettato dalla società e sostenuto dai sindacati, si possono stabilire dei limiti.
Solo quando i diritti del lavoro vengono riconosciuti e applicati i lavoratori e le lavoratrici saranno nelle condizioni di denunciare gli abusi e organizzarsi contro condizioni di lavoro inaccettabili e uno sfruttamento eccessivo”.
Le parole dei e delle sex workers d’Europa suggeriscono che l’abolizione dello sfruttamento passa attraverso la regolamentazione di ciò che non è sfruttamento ma libera scelta.
Lo stigma
Attivisti/e e ong come Amnesty International e Human Rights Watch sostengono che legislazioni restrittive, criminalizzanti e punitive contribuiscono a discriminazione, stigmatizzazione e abuso dei/delle sex workers.
Oltre alla violenza e alla mancanza di tutele finanziarie e sanitarie, una delle conseguenze più devastanti a livello psicologico riguarda lo stigma sociale.
Quello che colpisce i lavoratori e le lavoratrici sessuali è uno stigma multidimensionale, plurale e contaminante.
Non riguarda solo chi offre servizi sessuali, ma anche chi li compra o chiunque sia vicino ai/alle sex workers, racconta Giulia Zollino. Si articola almeno su tre livelli.
Lo stigma sociale riguarda la percezione dello sguardo esterno giudicante sul sé. Esiste poi uno stigma tra sex workers, organizzati in gerarchie che si discriminano reciprocamente. Infine, lo stigma interiorizzato.
Quest’ultimo indica il processo per cui il soggetto incorpora nel proprio sistema di valori lo stigma sociale, per poi applicarlo a sé. Il (pre)giudizio altrui si trasforma in sguardo interno che vigila, fa soffrire e provare vergogna.
Non si tratta di concetti astratti. Lo stigma ha conseguenze tangibili: il soggetto si ritiene di minor valore e, pertanto, si comporta conformemente a quei pregiudizi che ha fatto propri.
Lo stigma agisce auto-legittimandosi e togliendo potere, secondo un meccanismo di auto-mantenimento che imprigiona chi ne è vittima.
Il/la sex worker si percepirà come privo/a di valore. Faticherà a esercitare i propri diritti perché non potrà riconoscerseli, o per paura di essere identificato/a come individuo di serie B.
Accetterà abuso e marginalizzazione, rimanendovi impantanato e impossibilitato a uscire dalla sua condizione.
Riconoscere e decriminalizzare
Riconoscere e decriminalizzare costituiscono un binomio fondamentale per migliorare le condizioni di vita di chi si occupa di sex work.
Riconoscere il sex work in quanto lavoro non corrisponde soltanto a una presa di posizione ideologica. Significa, piuttosto, permettere che venga regolamentato e protetto come altre occupazioni.
Decriminalizzare, invece, è condizione necessaria per assicurare ai e alle sex workers, in quanto persone, i loro diritti umani.
Sì, parlare del sesso in quanto lavoro è difficile. E’ difficile esprimersi senza sentenziare. Non schierarsi. Non moralizzare di fronte alla realtà che il sex work può essere una scelta consapevole.
E’ complicato prendere le distanze dalle certezze e dagli stereotipi che ci siamo costruiti su un fenomeno millenario. Ma rifletterci con sensibilità e interesse, tenendo a mente il contesto attuale e aprendosi a differenti punti di vista è importante.
Mi domando: fino a che punto il lavoro sessuale può essere uno strumento di empowerment, una forma di realizzazione personale? Quanto la scelta di fare del sesso il proprio lavoro è realmente autodeterminata e quanto, invece, condizionata? Come si può far luce e vedere con chiarezza in un ambito così buio e intricato?
“Assumere che il lavoro sessuale sia lavoro, non significa affermare che sia un lavoro buono, empowering o privo di rischi. In ogni caso, il sex work non è intrinsecamente dannoso, ma la criminalizzazione e lo stigma lo rendono circostanzialmente dannoso”.
In questa riflessione di Open Society Foundations, che riporta un dato di realtà astenendosi dal giudizio, riconosco uno sguardo lucido sul fenomeno del sex work. Con il quale personalmente, mi sento di concordare.
di Gaia Figini
Per approfondire
“Il sex work è un lavoro come un altro? Parliamone.” https://www.youtube.com/watch?v=p3dF-VD0hqs. Sei donne con differenti idee sul sex work si confrontano sull’argomento.
Il profilo Instagram di Giulia Zollino, educatrice sessuale e antropologa, attraverso cui fa divulgazione sul tema del lavoro sessuale: https://www.instagram.com/giuliazollino/?hl=it
Una talk dell’attivista Juno Mac sui quattro modelli di regolamentazione del lavoro sessuale: https://www.ted.com/talks/juno_mac_the_laws_that_sex_workers_really_want