Costituire un’organizzazione non è semplice. Costruirla e pensarla in modo coerente, con degli obiettivi e una missione, fuori dalla bussola del profitto e cercando di innovare, può sembrare quasi impossibile.
Fin dalla costituzione di Transiti Psicologia d’Espatrio come una startup sociale ci siamo a più riprese interrogate e interrogati su quali modalità e modelli avremmo potuto adottare per la nostra organizzazione.
Tuttavia, come sa bene chi – come noi – lavora nel campo della cura del benessere psicologico, a volte più che trovare risposte è necessario riuscire a porsi buone domande. Nel fare ciò, arriva sempre il momento in cui è necessario chiedere aiuto: l’aiuto di uno sguardo vicino, di uno sguardo esterno, di uno sguardo interessato che ci faccia scorgere in noi qualcosa che ancora non avevamo visto bene.
Alcune questioni però riecheggiavano forti: qual è la nostra storia di organizzazione e come ci accompagna? E’ possibile tradurre delle competenze e delle esperienze provenienti dal mondo della psicoterapia nel linguaggio e nelle pratiche di un’organizzazione? Come costruire un progetto davvero collettivo e condiviso?
In questo processo di sguardo al passato e costruzione del futuro ci ha accompagnato IF Life design.
La richiesta di Transiti
La richiesta iniziale di Transiti startup sociale a IF Life Design è stata quella di una formazione per raccogliere alcuni pezzi della storia organizzativa, perché non andassero dimenticati e potessero essere valorizzati.
Con pazienza, Gloria e Daniela di IF hanno condotto noi socie e soci di Transiti in un percorso di esplorazione, di conoscenza di noi stessi come organizzazione, adattando il loro modello, quello del Life Design, alla realtà organizzativa.
“Non è una costruzione di processo ma di pensiero, di progetto che valorizzi i singoli individui e la somma delle persone. Si tratta di applicare il Life Design alle organizzazioni.”
A inizio 2022 Transiti ha vissuto un cambio di organizzazione e, quindi, un passaggio di governance, da una responsabilità individuale ad una collettiva e soprattutto no-profit. Si tratta di un bisogno forte, portato avanti con determinazione dalle persone che hanno fatto parte di Transiti, ovvero il bisogno di rinnovare una pratica, quella della cura psicologica e della promozione del benessere in espatrio, e di muoversi verso una missione sociale.
Fare parte di un’organizzazione, soprattutto essere testimoni della sua nascita e trasformazione, vuol dire però attraversare una serie di complessità che hanno a che vedere con il rimaneggiare e poter pensare insieme a qualcosa a cui si è aderito. Questo vuol dire fare in modo che il progetto possa diventare davvero collettivo, in grado di stimolare i talenti e le potenzialità delle persone che stanno in quella organizzazione. Vuol dire stimolare il desiderio di stare dentro un’organizzazione in modo originale e complesso.
Al termine del primo anno di attività, tra fine 2022 e inizio 2023, attraverso una serie di incontri preliminari, socie e soci di Transiti hanno fatto emergere alcuni bisogni collettivi, come quello far circolare di più le informazioni – una questione particolarmente complessa in un’organizzazione ibrida -, e quello di raccontarsi il proprio percorso individuale e il proprio impegno nei confronti dell’organizzazione così da poter riflettere insieme su cosa e come fare per sviluppare i passi successivi.
Si sono fatti spazio anche alcuni bisogni specifici, come quello di trovare una strada per delegare e sentire un’appartenenza attiva, trovare il proprio spazio individuale e professionale, confermare o disconfermare il proprio coinvolgimento attivo all’interno dell’organizzazione.
Andare a tempo, osservare il tempo di un’organizzazione
Il punto di partenza del Life Design proposto da IF è stato: far emergere quello che ciascuno conosce già dell’organizzazione.
“Il passato è qualcosa che tocca nel profondo le organizzazioni così come le persone”, afferma Daniela.
Avviare e approfondire delle riflessioni sull’identità di un’organizzazione vuol dire anche parlare delle persone che sono e che sono state al suo interno: un coinvolgimento della dimensione tempo che per Transiti è stata anche un’esigenza portata dai singoli individui.
Così come nel Life Design individuale, la partecipazione ad un percorso di Life Design organizzativo permette di recuperare o porre le basi del desiderio e delle motivazioni che ciascuna persona sente nei confronti di sé, ma che a loro volta si inseriscono in una progettazione collettiva.
“Cosa posso fare io che fa bene a me e fa bene all’organizzazione?”
Si tratta di aiutare l’organizzazione a valorizzare il contributo dei singoli nel gruppo. Si tratta di parlare del benessere e del malessere sul luogo di lavoro e, più in generale, nel lavoro che ciascuna persona vive, attraverso una modalità operativa snella ma intensa.
I percorsi di Life Design organizzativo sono brevi, accendono una miccia, favoriscono attivazioni che contribuiscono a costruire un senso di identità, a stabilire e confermare degli obiettivi condivisi e a consolidare la startup sociale.
Fare chiarezza
Talvolta nelle piccole organizzazioni la questione della confusione dei ruoli può rappresentare un problema, e la posizione occupata da ciascuna persona può essere complessa: un mix di vantaggi e svantaggi, personali e organizzativi, che sono tutt’altro che semplici da tenere insieme.
Un ulteriore passaggio è stato quindi quello scandito dalla chiarezza, per uscire dalle ambiguità, raccontarsi – oltre alle etichette relative ai ruoli – chi si è e cosa ciascuno fa nell’organizzazione.
Obiettivo: arrivare ad una distribuzione condivisa, più cosciente ed equa dei carichi di lavoro necessari per raggiungere gli obiettivi organizzativi.
Si tratta di un lavoro che fa emergere delle parti dell’identità della cultura organizzativa e aiuta chi ne fa parte a capire, per esempio, quanto spazio è dato alle singole persone di muoversi e determinare il lavoro che svolgono e quali sono le aspettative organizzative oltre alla mission.
Questo processo permette l’emersione di temi sommersi, tabù organizzativi che possono essere osservati dal gruppo e con i quali ci si può rapportare in modo cosciente ed esplicito. Quando si porta in superficie qualcosa che non era visibile prima, si attua sempre un piccolo o grande svelamento a partire dal quale le persone nell’organizzazione possono essere in grado di osservare se stesse e gli altri al suo interno in modo più completo.
Ad un primo sguardo potrebbe apparire paradossale, ma un grande esito di un percorso di Life Design organizzativo è anche quello di capire quanto una persona può stare nell’organizzazione, quanto questa stessa organizzazione è in grado di dare apporto al proprio progetto professionale e quali sono i limiti sani e costruttivi di questo rapporto. Si tratta di un percorso che, come il Life Design individuale, mette al centro la persona, collaborando a costruire consapevolezza, coerenza e accettazione, tanto del singolo rispetto a sé, quanto in modo condiviso all’interno dell’organizzazione.
Si tratta di stimolare e riabilitare la responsabilità individuale reciproca per potersi dire, nel caso di Transiti, qual è il posto che ciascuno sente di poter occupare, condividere all’interno dell’organizzazione.
Pensare a come andare avanti e progettare
Di solito nelle attività si usa uno strumento, un oggetto. Questo per l’importanza del mettere a terra, di avere un filo conduttore, un qualcosa che tracci il percorso e guidi nell’esplorazione.
Usare uno strumento rende anche chiara l’importanza di fissare, per poter proseguire. L’esito di un buon percorso produce un piano d’azione con dei verbi che portano alle azioni da fare. Si tratta, per il gruppo, di una facilitazione enorme, perché non è più necessario rimettere ogni volta in discussione le cose importanti di cui è necessario parlare.
L’uso di un oggetto in retrospettiva crea inoltre un riferimento, una cornice alla quale è possibile rivolgersi e guardare per seguire il percorso intrapreso.
Accade spesso che ci siano delle dimensioni che hanno bisogno di essere portate in superficie. In questo caso specifico, un ruolo importante è stato giocato dal lavoro e dalla riorganizzazione di un piccolo gruppo all’interno dell’organizzazione, che ha fatto da apripista permettendo di esplorare differenti possibilità e dinamiche di interazione e strutturazione dei flussi di lavoro.
La strutturazione del lavoro di gruppo ha reso possibile la presa di consapevolezza del valore delle attività, del tempo, e anche del valore economico. Ha quindi posto le basi per la costruzione di un patto esplicito, cosa non facile in un’organizzazione a forte vocazione sociale e no-profit. Questo ha consentito di fare “massa critica” rispetto ad alcune tematiche latenti.
Avviare un Life Design con un’organizzazione vuol dire anche sviluppare la questione delle risorse, dei talenti.
Guardando ad un’organizzazione che è composta di più persone si sta osservando un organismo multi-potenziale. Spesso però, proprio perché “possono tutto”, le persone si immobilizzano. Per questo è necessario, lungo il corso degli incontri, aiutare le singole persone a fare un po’ di chiarezza rispetto alle possibilità infinite, evitando il rischio di coinvolgersi in tutto, di seguire ogni singola strada collettivamente – ma anche individualmente – perché questo, senza una chiara direzione condivisa a cui tornare, un accordo a cui fare riferimento, rischia di disperdere le energie, oltre che proprie anche delle altre persone dell’organizzazione. Energie che sono limitate, che si prende in prestito da altre persone, spesso involontariamente.
“Quando ogni cosa è così importante, diventa poi che niente sembra più davvero importante”.
Cosa ha significato tutto questo per la nostra startup sociale
Il percorso di Life Design ha permesso a ciascuna e ciascuno di noi di ascoltarsi e di farlo all’interno di un gruppo in cui, mentre ci ascoltavamo, sentivamo anche voci altre. È stato un percorso che ci ha permesso di chiederci – e di farlo insieme – “dove stai andando?” e “cosa posso mettere di mio?”.
Sono stati incontri che ci hanno permesso di osservare la forma e il senso di appartenenza ad un gruppo.
Allo stesso tempo ci hanno permesso di dare una forma pratica, concreta, allo scambio, di darci degli obiettivi precisi e concreti su cui lavorare e di stimolare una continuità partecipativa.
Dall’interno ci ha permesso, guardando ad un piccolo gruppo che comunicava verso l’esterno dell’organizzazione, di dare maggiore chiarezza anche alla comunicazione interna.
È stato un momento per conoscere cosa si fa internamente, per dar voce alle questioni che erano poco chiare. E anche per capire l’investimento degli altri.
C’è sicuramente bisogno di fare ancora dei passaggi. È stato un lavoro che ha messo le basi, che ha fissato dei punti cardinali, ma le organizzazioni sono in costante cambiamento, così come le persone all’interno di esse, e sarebbe bello poter fare nuovi aggiustamenti condivisi mantenendo la coerenza con i passi svolti fino ad ora.
La memoria delle organizzazioni ha bisogno di essere costruita man mano e recuperarla può essere spesso un processo faticoso. Allo stesso tempo, le persone che fanno parte dell’organizzazione possono cambiare entrando a farne parte o uscendone, e non hanno spesso la possibilità di chiedersi quale sia il loro ruolo in questa memoria collettiva.
È stato interessante quindi ricevere delle domande e affrontare delle difficoltà, delle criticità. Le persone che hanno partecipato hanno trovato la loro dimensione nel gruppo: avevano voglia di esserci, di dire la loro senza nascondere dubbi e difficoltà, date anche dall’incontrarsi in forma ibrida tra online e presenza fisica.
Non possiamo dimenticare che Transiti è composta in gran parte da psicologhe e psicologi specializzati, di cui una buona parte proviene da una scuola di psicoterapia di gruppo. Per le professioniste e i professionisti il Life Design ha rappresentato anche un’esplorazione nel tentativo di capire cosa accade e come sviluppare al meglio un gruppo di psicologi e psicologhe. Si tratta di una professione popolata da liberi battitori o dipendenti, che lavorano per lo più in autonomia e a cui, nel caso di Transiti, viene proposto un progetto collettivo, per sviluppare il pensiero che chiunque, se lo desidera, si può sentire ingaggiato in qualcosa che sente anche proprio.
Si parla molto di open innovation, ma condividere un percorso simile vuol dire anche sapere che le persone, ad un certo punto, possono anche andarsene. Quando si lavora insieme ad una missione comune non c’è dispersione dell’identità ma, al contrario, un rafforzamento identitario, anche individuale.