Death Café: parlare di morte in espatrio

Breve storia del Death Café

Durante un Death Café le persone, spesso sconosciute, si riuniscono per mangiare dei dolci, bere del tè e discutere della morte“.

Esordisce così il sito deathcafe.com, che dal 2010 è il principale portale online che diffonde, raccoglie e sponsorizza Death Café in tutto il mondo.

Il Death Cafe è un modello che è stato sviluppato da Jon Underwood e Sue Barsky Reid sulla base delle idee di Bernard Crettaz. 

Era il 2010 quando Jon Underwood, che lavorava come dirigente per il consiglio di Tower Hamlets, un quartiere di Londra, lesse un articolo sui cosiddetti ‘café mortels’, eventi avviati nel 2004 da Bernard Crettaz, un sociologo svizzero, autore del libro Cafés mortels: Sortir la mort du silence. Colpito dalla tematica, Underwood decise di lasciare il suo lavoro e di dedicarsi allo sviluppo di  una serie di progetti sulla morte, ispirandosi al modello di Crettaz. Nacque così il Death Café.

Come funziona un Death Café

Non si trattava di gruppi di sostegno al lutto o di sessioni di pianificazione del fine vita, ma piuttosto di forum occasionali per persone che volevano discutere di pensieri filosofici. Com’è la morte? Perché la temiamo? In che modo la nostra visione della morte influenza il nostro modo di vivere?

Un Death Cafe non necessita di personale, e non è nemmeno un luogo specifico. Avviene ovunque ci siano persone (da un minimo di 4 fino ad una ventina) disposte a partecipare e un luogo accogliente in cui ritrovarsi.

I Death Café sono eventi offerti:

  • senza scopo di lucro;
  • in uno spazio accessibile, rispettoso e confidenziale;
  • senza l’intenzione di condurre le persone a una conclusione, a un prodotto o a un corso d’azione; 
  • insieme a bevande rinfrescanti e cibo nutriente – e torta! 

In alcune interviste, Underwood dichiara: “Alcune persone temono che parlare della morte possa attirarla e renderla più probabile. Mangiare e bere sono atti consapevoli di nutrimento del corpo. Aiutano a mitigare la paura”.

La versione londinese dei Death Café è stata gestita su base volontaria da Jon Underwood a Hackney, nell’est di Londra, fino a giugno 2017. Jon è morto improvvisamente il 27 giugno 2017 e il Death Cafe è ora gestito da Susan Barsky Reid, la madre di Jon, e da sua sorella Jools Barsky. Inoltre, Lizzy Miles, che ha gestito il primo Death Cafe negli Stati Uniti, e Megan Mooney, che gestisce la pagina Facebook del Death Cafe, hanno svolto un ruolo significativo nello sviluppo del modello.

A partire dall’esperienza londinese, i Death Café si sono rapidamente moltiplicati e sparsi in moltissimi luoghi nel mondo. Questo anche grazie alla decisione da parte degli organizzatori di rendere disponibile una guida su come organizzare un Death Café e di concedere l’uso del nome a chiunque rispetti le regole d’uso pubblicate sul sito.

I Death Café in Italia

Anche in Italia sono stati organizzati Death Café a più riprese. Alice Spiga, direttrice di SO.CREM Bologna, afferma: “Dopo questi incontri ci si sente sollevati, come liberati da un peso, […] e allo stesso tempo ‘arricchiti’, perché si ha l’opportunità di confrontarsi con persone di ogni età, sesso, credo religioso, estrazione sociale… e ognuna di loro ha vissuto esperienze diverse rispetto alla morte e ha un proprio personalissimo modo di pensare (e raccontare) la morte. Parlarne in questo modo, in uno spazio sicuro, bevendo una bibita e assaporando dolcetti – conclude Alice aiuta ad interiorizzare la presenza della morte, ad accettare che essa è parte integrante della vita, pur mantenendo intatto tutto il mistero che l’avvolge”.

I Death Café di Transiti

Anche in Transiti abbiamo avviato una serie di riflessioni sulla morte e sul lutto, alla luce degli intrecci con mobilità, migrazione, espatrio. Abbiamo iniziato a parlarne con l’articolo Lutto e mobilità: l’elaborazione della “perdita” come denominatore comune.

Parlare della morte e del morire, affrontando il distacco e il fine vita, proprio e altrui, quando c’è della distanza di mezzo richiede di fare i conti con numerosi ulteriori strati.

Le semantiche legate alla morte possono variare anche in modo significativo all’interno di sistemi culturali differenti: 

Come mi prenderò cura della memoria di una persona sepolta lontano da qui? E se avessi capito che la sepoltura non è ciò che voglio per me? Se volessi far di me qualcosa che in Italia non è comune? 

Come gestisco gli oggetti che mi sono stati lasciati e che sono lontani da me? Ho mai pensato ad organizzare che cosa fare della mia salma? Per quali parti di noi siamo in lutto da tempo, e che forma ha un’eredità nomade?

Come sempre, si può rispondere a queste domande, ma mai in modo definitivo e univoco. Vanno frequentate, come scriviamo in “Traiettorie. Guida psicologica all’Espatrio“, e ad esse dobbiamo tornare più e più volte: sono un termometro di quanto siamo ancora noi, ma anche del fatto che non siamo più come eravamo. Domande di cui è necessario parlare e risposte provvisorie che è doveroso raccontare e condividere con altre persone, per iniziare a liberarsi dai tabù che circondano i temi della morte, della separazione e del lutto.

Noi abbiamo iniziato a farlo con dei Death Café a tema mobilità, il primo dei quali si è tenuto il 13 marzo a Londra e che ci auguriamo di ripetere presto.

Questo articolo fa parte di una piccola serie sul benessere psicologico in mobilità internazionale, pensata per chi si trova in una traiettoria d’espatrio ma anche per chi quella traiettoria la osserva, talvolta da lontano.