Routine nei contesti di guerra: un’àncora di stabilità

Nel caos del conflitto, la routine diventa strumento di resilienza, personale e collettivo. L’esperienza di Alessia, infermiera italiana in missione con MSF, che ha sperimentato le proprie strategie per gestire lo stress

In un paese in guerra, la routine assume un’importanza vitale. Non è solo una sequenza di gesti quotidiani, ma una strategia di sopravvivenza: ricerca di stabilità, prevedibilità e controllo diventano strumenti essenziali per affrontare il caos e ridurre l’ansia e lo stress. Stabilire ritmi e azioni prevedibili può aiutare a preservare la salute mentale e fisica, a gestire le risorse che abbiamo a disposizione e mantenere il proprio ordine organizzativo. 

Un’esperienza di questo tipo è quella che ha raccontato Alessia Arcangeli, infermiera romana esperta in malattie infettive a Roma con esperienza ventennale, che ha partecipato a diverse missioni con Medici Senza Frontiere, ricoprendo il ruolo di coordinatrice delle attività infermieristiche: la sua ultima esperienza, in Ucraina a inizio 2025, si è rivelata una sfida totalmente nuova, che ha messo alla prova la capacità di gestione dello stress e dell’ansia derivanti dal contesto di insicurezza attuale del paese, con il conseguente tentativo di riproduzione della propria routine personale, vissuta come scudo e tentativo di tutela del proprio benessere mentale.

Prepararsi alla missione

Alessia Arcangeli lavora con MSF dal 2011, in contesti di emergenza: in Liberia durante il colpo di stato, in Repubblica Democratica del Congo e Sierra Leone in occasione della peggiore epidemia di ebola della storia, in Afghanistan e Costa d’Avorio, in India e presso il campo di rifugiati a Lesbo.

Queste esperienze mi hanno spinta nel 2019 a specializzarmi ulteriormente, questa volta nella prevenzione delle infezioni, e da allora ricopro il ruolo di responsabile della prevenzione e del controllo delle infezioni, occupandomi in particolare della supervisione in diversi progetti situati in un’area specifica: nel 2023, infatti, in Afghanistan mi dividevo tra tre diversi progetti sanitari. 

Così all’inizio di quest’anno ho accettato una posizione simile in Ucraina, attratta dalla possibilità di conoscere un contesto nuovo e anche di ‘mettermi alla prova’ in una zona di guerra”. Lavorare in Ucraina per MSF prevede lo spostamento in diverse zone del paese, da nord a sud, dove l’organizzazione gestisce centri di disturbo post traumatico, servizi di ambulanze, cliniche mobili per dare soccorso alla popolazione più lontana e supportare ospedali locali.

MSF offre un colloquio psicologico pre-partenza per valutare lo stato emotivo e fornire strumenti di gestione dello stress. Sebbene chi parte per le missioni sia consapevole delle difficoltà, nessuna preparazione può davvero anticipare l’impatto di un contesto bellico. 

Durante la missione l’organizzazione mette a disposizione anche un numero di supporto psicologico da remoto, che possiamo contattare nel momento del bisogno. In alcuni contesti critici, come Lesbo o in Congo, il supporto psicologico era presente anche in loco, non solo per il supporto al singolo, ma anche per favorire il dialogo e la cooperazione all’interno dei team, laddove sorgono problematiche nel lavoro d’équipe”. 

Ucraina: la percezione di minaccia costante

La missione in Ucraina non era mai stata nei piani di Alessia, ma la posizione che le permetteva di muoversi sul territorio e la curiosità verso l’Est Europa l’hanno spinta ad accettare. 

Sapevo che sarebbe stata una grande sfida, ma, una parte di me, devo dire la verità, era curiosa di capire quali emozioni mi avrebbe provocato; volevo davvero capire quanto siamo fragili, oltre a mettere alla prova la mia soglia di resilienza.

Il primo contatto con l’Ucraina è stato Leopoli: mi ha sorprendentemente accolto una città viva, oltre che giovane, dove la guerra sembrava lontana. La flessibilità richiesta era altissima: sarei dovuta passare prima da Kiev invece sono stata diretta nella regione prossima al fronte, ovvero a Mykolaiv, per lavorare in cliniche mobili al confine con la regione di Kherson, con un treno che in 18 ore ha attraversato parte del paese, insieme a famiglie e soldati. Il viaggio in realtà si è rivelato un’esperienza bellissima, quasi introduttiva: osservare il paesaggio che cambiava mi ha permesso di avvicinarmi lentamente a questa esperienza. Dopo mi aspettavano Kherson e Dnipro, dove ho lavorato sia in cliniche mobili che in ospedali locali supportati da MSF. Ogni spostamento e tappa prevedeva modalità specifiche legate a esigenze operative e sicurezza“.

In Ucraina, la minaccia è concreta e quotidiana. Bisogna imparare subito a usare l’app che segnala l’immediato lancio di missili o droni e ne traccia la traiettoria, indicando quali città sono a rischio e se quindi necessario cercare un rifugio sotterraneo. 

La voce metallica dell’app mi metteva un’ansia terribile, a quella non mi sono mai abituata”, racconta Alessia. “Esistono anche diversi gruppi Telegram, con informazioni che vengono simultaneamente tradotte in inglese, che trasmettono informazioni più dettagliate sulle traiettorie dei missili e dei droni: questi ultimi spesso non sono intercettabili, sono molto più grandi di quanto li immaginassi e generano un rumore assordante anche a distanza”.

Sonno negato e strategie di resilienza

Nei primi giorni, Alessia non riusciva a dormire. I bombardamenti notturni e gli allarmi continui rendevano il riposo impossibile. 

Per tutta la mia permanenza devo ammettere di aver dormito molto poco. Erano rare le notti in cui l’app non suonava e il sonno non veniva interrotto. 

Le due colleghe che vivevano con me a Cherkasy, al centro di riabilitazione per pazienti feriti e con traumi, riuscivano a dormire più o meno profondamente, ma io mi sentivo sempre in allerta. Anche dopo il ritorno a Roma, durante il primo periodo alcuni suoni mi facevano sobbalzare. 

Per non sentire troppo la stanchezza avevo portato con me pastiglie di spirulina, ma avevo bisogno di strategie per gestire lo stress: così ho cercato di replicare le stesse che mi capitava di mettere in atto a Roma o in altri paesi dove avevo già vissuto esperienze vagamente simili. 

Mi ritagliavo del tempo per fare ciò che poteva farmi stare bene e tenere a bada la tensione. Ad esempio scrivere molto, in particolare su ciò che mi accadeva. E poi, ho creato un canale WhatsApp dove raccontavo agli amici, attraverso vocali o canzoni, quello che stavo vivendo: mi aiutava a esternalizzare ed elaborare, a condividere le emozioni, che è importante. 

E poi, l’ascolto della musica, la lettura e lo yoga, che ho continuato a praticare online con la mia insegnante a Roma insieme agli altri del gruppo. Anche solo respirare e meditare una volta a settimana, sentire il corpo e le emozioni in modo diverso mi aiutava. Prendevo tempo per ascoltarmi, insomma, e questo mi è servito molto”. 

Una giornata tipo

Alessia cerca di ricreare la sua routine romana a Cherkasy: contatta un maestro di tennis per prendere lezioni e praticare sport, studia ucraino, canta e ascolta musica, fa lunghe passeggiate nei fine settimana.

Dopo il lavoro magari andavo in un caffè a lavorare, incontravo colleghi o conoscenti, non mi piace isolarmi e amo il contatto con le persone. A Cherkasy si può andare in giro liberamente, eccetto quando suonano l’allarme per segnalare possibili attacchi, ovviamente. Cercare di portare avanti attività simili a quelle che facevo a Roma, anche se sembrava proprio una vita parallela, era come creare una bolla per decomprimere, indispensabile per non impazzire”.

Se a Cherkasy è possibile mettere in atto strategie per mantenere viva la routine – anche se negli ultimi mesi la sicurezza è peggiorata – in luoghi come Mykolaiv o  Kherson, a ridosso con il fronte, le cose sono decisamente diverse. 

Kherson è una città che è stata quasi completamente distrutta” racconta Alessia. “Sono rimasti solo gli anziani che non vogliono lasciare le loro case. L’accoglienza in ospedale mi aveva entusiasmato molto: insieme al resto del team MSF abbiamo cercato di mettere in pratica le nostre reciproche conoscenze per migliorare le pratiche sanitarie e mettere al sicuro i pazienti, ma in generale sono molto preparati riguardo al controllo delle infezioni. 

I giorni trascorsi a Kherson però sono stati davvero alienanti. Non è permesso lasciare l’ospedale, si dorme nel bunker sotto l’edificio, dove le esplosioni notturne rimbombano tantissimo, e tormentano tutte le notti. Ci sono tante persone che vanno e vengono in quei sotterranei, non hai spazi privati, tutto è in condivisione, e non sempre ci si sente al sicuro. Vivere lì per una missione prolungata è sinceramente molto difficile, così come mantenere una routine e tutelare il benessere mentale”.

Dopo la paura, il ritorno alla routine è un gesto di resistenza

Una notte, la comunicazione di allerta di un attacco con l’utilizzo di droni non è arrivata. 

È stata davvero la notte in cui mi sono sentita più in pericolo”, spiega. “Anche perché ero sola. Mi trovavo in casa, a Cherkasy, ed era un fine settimana; i tre colleghi con cui condividevo l’alloggio non erano in città. Le esplosioni sono andate avanti per qualche ora senza sosta, colpendo obiettivi strategici come la centrale elettrica poco distante e l’aeroporto che dista appena tre chilometri. I droni sono grandi, fanno tanto rumore, era come averli fuori dalla finestra. Mi sono rifugiata nel sottoscala, dove tra l’altro mi sono resa conto che in 4 non ci saremmo mai stati. In quel clima di tensione, ho ricevuto per fortuna due telefonate: una dalla collega e l’altra dal maestro di tennis, entrambi preoccupati per me. Grazie a loro ho sentito di non essere sola. Poi mi sono messa a parlare con un’amica in attesa che l’attacco terminasse”.

Dopo il bombardamento, Alessia invia un messaggio al canale social dove informa i suoi amici e comunica che sta bene. Ma rivela anche che il primo pensiero è stato quello di andare subito a stendere la lavatrice. 

In effetti sembra strano, ma ricordo un articolo su Internazionale in cui una donna che viveva lì raccontava che dopo un bombardamento, la prima cosa che faceva uscita dal bunker era andare a fare la lavatrice. È successo anche a me, e credo sia una normale reazione a quel momento, un meccanismo mentale: ti senti davvero ‘viva’, e scegli di compiere dei gesti che fanno dimenticare di vivere un contesto di guerra. Un gesto semplice, ma carico di significato: il mantenimento della routine come forma di resistenza, affermazione di umanità che rimette le cose in ordine in mezzo al caos.

La resilienza è collettiva

La routine ha influito profondamente sul benessere mentale ed emotivo di Alessia, ma non è stata mai un’esperienza solitaria. Con i tre colleghi ucraini aveva creato piccoli rituali di condivisione: ascoltavano musica, cantavano insieme, si scambiavano canzoni. 

In questo periodo, dopo anni, il canto è tornato a essere la mia passione. Ho trovato colleghi appassionati di musica, così, saltuariamente, ci troviamo a suonare e cantare”.

Eppure, dietro quei momenti di apparente serenità, si nascondeva una tensione profonda: “Mi chiedevo come facessero a essere così tranquilli. I giovani uomini erano terrorizzati dall’idea di essere chiamati al fronte. Al di là di tutto questo, cantare insieme portava leggerezza in tutta quella pesantezza. Avere a che fare con i tuoi pazienti che sono massacrati mentalmente e fisicamente non è facile”.

Anche nella casa che condivideva con una collega thailandese e una tunisina, la routine è diventata un rifugio. “Cenavano insieme, qualche sera liberavamo le emozioni con un karaoke, cercavamo i momenti di confronto. E il fine settimana, per quanto possibile, con alcuni colleghi cercavamo di disconnetterci dal lavoro, rilassarci e organizzare passeggiate lungo il fiume, in mezzo alla natura, che in questi casi ha un grande ruolo.  

La routine non era solo conforto per noi: facilitava la pianificazione delle attività, permetteva di distribuire i compiti in modo più razionale, rafforzava la coesione del gruppo. Ogni membro cercava di contribuire. E nei momenti più critici, quando tutto sembrava vacillare, erano punti di riferimento stabili. Infatti andare via e salutarli è stato un vero dispiacere per me”.

La routine è ciò che tiene insieme le persone, le protegge e le aiuta a resistere. Non è solo organizzazione: è cura, resistenza, umanità.