I Third Culture Kids – bambini di cultura terza – sono bambini e ragazzi che hanno trascorso gran parte degli anni dello sviluppo in un contesto culturale differente rispetto a quello dei propri genitori.
Le due culture si mescolano e si fondono, ma i TCKs sono molto più della semplice somma di queste: danno vita a una vera e propria cultura “terza”.
Hanno l’impressione di non appartenere a nessuna e a tutte allo stesso tempo, e nei momenti più critici della crescita si pongono la difficile domanda “Chi sono? Da dove vengo?” e per trovare le risposte cercano di fondersi nella massa o di differenziarsene completamente, in un alternarsi continuo.
Certo, il vissuto dei Third Culture Kids di oggi dovrebbe essere approfondito e trattato tenendo conto dei cambiamenti portati da digitale e tecnologia nelle relazioni con la famiglia in madre patria.
Ma un fattore emerge in modo costante dall’esperienza delle comunità di italiani all’estero: bambini e adolescenti Third Culture Kids spesso stringono più facilmente amicizia e riscontrano maggiori affinità con altri bambini Third Culture Kids.
Una caratteristica che è più evidente nei bambini che frequentano la scuola primaria e secondaria (in genere a partire dagli 8 anni) e meno nei più piccoli, ancora estranei al dilemma identitario.
E lo stesso vale per coloro che, dopo aver trascorso gli anni della propria infanzia all’estero, rientrano in Italia, paese di origine dei propri genitori, verso il quale sentono forte appartenenza ma che realmente non hanno mai vissuto.
E’ il caso di Alessia, 14 anni, che ha saputo portare avanti con spontaneità e autonomia una riflessione interessante sulla propria esperienza di bambina expat tornata in Italia nella pre-adolescenza, tanto da decidere di mettere questo tema al centro della tesina finale della scuola secondaria di primo grado.
Vivere il reverse culture shock
“Quando siamo partiti dall’Italia per trasferirci ad Amsterdam Alessia aveva quattro anni e sua sorella Elisa uno” racconta prima Cristiana, mamma di Alessia e di altri due bambini.
“Ci siamo trasferiti in Olanda per via del lavoro di mio marito e lì è nato il mio terzo figlio, Filippo. Successivamente ci siamo spostati in Turchia dove abbiamo vissuto altri quattro anni prima di rientrare in Italia”.
Generalmente, quando si parla di rientro a casa propria si cita sempre il reverse culture shock, ovvero il processo di riadattamento, spesso difficile, alla propria cultura di origine.
“Nel nostro caso, lo shock c’è stato, eccome!” conferma Cristiana.
“Prima di tutto per i bambini perché il trasferimento è stato un po’ inaspettato. Noi adulti invece, ci siamo resi conto che vivere all’estero ci aveva cambiati profondamente come famiglia: era come sentirsi stranieri a casa propria.
Le nostre abitudini e spesso anche i punti di vista che ci sembravano normali qui erano considerati ‘strani’ e non ci trovavano tanto in sintonia con le persone che frequentavamo prima. Riaddattarsi alla propria cultura non è stato semplice, è quasi sempre più facile adattarsi ad un cultura a noi estranea”.
Piccoli expat si attraggono
In generale i bambini si adattano velocemente ai cambiamenti, anche se ogni storia è a sé e l’età in cui avviene lo spostamento influisce decisamente.
Arrivata alla fine della scuola elementare, Alessia cerca di mantenere le relazioni con gli amici conosciuti in Turchia, anch’essi expat, e a stringere amicizia in Italia con bambini figli di genitori stranieri.
“All’inizio il fatto che mia figlia potesse avere più cose in comune con l’amica di Teheran conosciuta a İstanbul piuttosto che con chi era cresciuto in Italia mi stupiva.
Notavo sempre le stesse dinamiche, e me lo confermavano anche insegnanti ed altri genitori.
Ho capito che forse ai ragazzini come lei mancava una ‘fetta’ di infanzia condivisa con chi cresce nel proprio paese di origine. Sembra banale ma Alessia faceva fatica a capire le barzellette, i giochi di parole o i modi di dire. Anche le canzoni che si ascoltano da piccoli come ‘Il coccodrillo come fa’, a lei non dicevano proprio niente!
Inoltre, dopo la sua esperienza a Istanbul, alcuni comportamenti erano radicati in lei: uscire a giocare anche se piove, mangiare meno a pranzo perché c’è Ramadan, ascoltare canzoni di altri paesi e assaggiare piatti di cucine altre, cosa che era abituata a fare quando andava a casa degli amichetti.
Lei e i suoi compagni avevano creato il loro mondo – o terza cultura? – fatto di realtà condivise, a cui ognuno contribuiva con il proprio pezzetto.
Quando cambi paese ti porti dietro un bagaglio che puoi solo parzialmente condividere: per gli adulti è più semplice ma per i bambini e ragazzi può essere faticoso perché quella cultura condivisa è alla base dell’inizio di un’amicizia.
Senti quindi più affinità verso chi ha fatto le tue stesse esperienze o semplicemente si sente come te un po’ ‘straniero’, parla con un accento simile al tuo, sa cosa vuol dire traslocare e salutare gli amici e quanto siano importanti l’accoglienza e l’accettazione a scuola nei confronti di chi arriva da un altro paese”.
Rielaborare la propria esperienza migratoria
“Se mi chiedono da dove vengo, ovviamente dico ‘italiana’ perché effettivamente mi sento italiana” esordisce Alessia.
“Eppure mi rendo conto che l’italiano, non è ancora così forte come vorrei, e la lingua è molto importante.
All’inizio mi rendevo conto che mi mancavano i riferimenti di chi ha vissuto l’infanzia in Italia. Tuttavia non mi sento né turca né olandese.
Anche lì i miei amici erano per di più stranieri come me; i nostri genitori provenivano da paesi diversi eppure, non so perché, sentivo che tra di noi ci capivamo.
Anche qui in Italia accade la stessa cosa: con gli stranieri non mi sento giudicata se sbaglio quando parlo in italiano, guardiamo le stesse serie TV e abbiamo un approccio simile su tante cose.
Essendo tornata a vivere nel mio paese di nascita e di origine dei miei genitori non dovrei essere considerata Third Culture Kid, eppure tutte le amiche con cui mi sento più in sintonia lo sono.
Forse, se ci penso bene, avevo come la sensazione di sentire da parte dei ragazzi stranieri più accettazione, inclusione, curiosità e apertura, e anche una sorta di ‘non paura’ del diverso”.
Un sentimento, quello di Alessia, che la porta a porsi tante domande e che in parte riesce a chiarire scrivendole nero su bianco, e dedicando a questo tema la tesina dell’esame di terza media che ha appena discusso.
“Nel mio lavoro ho messo al centro la mia esperienza da migrante.
Ho descritto gli aspetti positivi come appunto l’apertura o l’indipendenza, ma anche quelli negativi come la sensazione di non avere radici.
Ho approfondito cosa significa avere un cervello bilingue e mi sono documentata sui flussi migratori degli ultimi 20 anni.
Ho anche intervistato una mia amica che è madrelingua portoghese, ma che dice di sentirsi molto più a suo agio quando parla inglese perché si è spostata tante volte e per lei quella lingua è il veicolo di socialità con le persone che crede essere più simili a lei”.
I ‘valori’ dei cittadini del mondo
“Ho avuto l’impressione che, mentre la comunità locale a volte tende a chiudersi, quella internazionale invece tende ad accogliere”, aggiunge Cristiana.
“Sanno cosa vuol dire cambiare scuola, casa, paese. Forse per questo motivo chi si sposta e cambia paese si sente più a suo agio con altri expat. E poi, semplicemente è più facile stare con chi credi essere più simile a te.
Da mamma mi ha stupito come i miei tre figli abbiano reagito in modi diversi al rientro in Italia.
Sicuramente le età differenti hanno influito, ma credo dipenda anche da una questione caratteriale. Elisa, la seconda, è quella dei tre che si è integrata più velocemente, ha amiche sia italiane sia straniere, segue i tiktokers americani ma conosce benissimo tutte le mode italiane.
Filippo è tornato in Italia a 6 anni ed è nato all’estero. Nonostante fosse piccolo mi chiede spesso ‘ma io cosa sono? Sono nato in Olanda ma non sono olandese, parlo inglese ma non sono inglese, mi dici che sono italiano ma parlo malissimo italiano!’.
Vorrei fargli capire che non si tratta di un problema ma di una ricchezza, eppure non sempre è facile.
Per quanto riguarda Alessia che, invece, ha vissuto il primo ciclo scolastico all’estero, ricordo che aveva grandi aspettative quando siamo tornati in Italia.
Nella sua scuola di Istanbul c’era molto turnover, e quando arrivava un nuovo compagno facevano a gara a chi se lo accaparrava per aiutarlo a integrarsi più velocemente nel gruppo.
Qui è avvenuto il contrario, non è stata esattamente come si immaginava che fosse, e ha passato mesi a piangere.
Credo che sia per questo motivo che sente di avere più affinità con chi ha il suo stesso vissuto, e ora che attraversa un periodo delicato di crescita, riconoscere le piccole sofferenze legate a questo cambiamento credo sia importante per lei”.
Se hai bisogno di supporto e vuoi iniziare un percorso di consulenza di carriera, Transiti è qui per aiutarti: clicca qui per saperne di più e prenotare il tuo colloquio di accoglienza gratuito.