Di recente, all’interno della stanza di psicoterapia, un giovane paziente di 12 anni mi ha chiesto, alla luce del mio ruolo professionale: “Che cosa ne pensi del mondo digitale?”.
Mi è sembrata una domanda davvero interessante, dato che mai come in questo tempo il tema è estremamente dibattuto e affrontato da punti di vista molteplici a cui si accompagnano almeno altrettante opinioni. Spesso non è semplice trovare terreno di dialogo tra differenti generazioni: è ciò che capita talvolta in una stanza di psicoterapia, ed è uno tra quei – numerosi – privilegi relativi alla professione che, in quanto tale, va riconosciuto, non dato per scontato, usato come motore riflessivo.
È indubbio che viviamo in un’epoca storica in cui non si può prescindere dal digitale, che permea la realtà. Chiunque ha più o meno una vaga idea della gamma di emozioni che si può provare quando si pensa di aver perso il proprio cellulare o, più semplicemente, quando viene meno la connessione. Irrequietezza, impazienza, agitazione, preoccupazione e ansia; frustrazione e rabbia; sollievo. Ciascuno può reagire in modi molto diversi, ma nessuno resta indifferente. Il digitale ci tocca, la tecnologia ci riguarda. In qualche modo, è anche ciò che siamo. Ed è per questo che come comunità professionale di psicologi e psicoterapeuti è necessario interrogarsi personalmente e a livello collettivo rispetto alle dinamiche che (ci) attivano.
Il digitale nel linguaggio cinematografico mainstream: una metafora
Il cinema italiano offre spunti interessanti di riflessione, poiché ha preso ispirazione da vari temi connessi alla digitalizzazione, con diversi film che spaziano dalla caratura tragicomica, per quanto di un buon livello introspettivo, di “Perfetti sconosciuti” (2016), fino alla commedia romantica “Non c’è campo” (2017). Si tratta di produzioni che, se da un lato offrono stimoli, al tempo stesso propongono visioni un po’ semplificanti sul tema:“tutto bene” o “tutto male”, “tutto buono” o “tutto cattivo”.
Mi domando: perché?
Rischi, vantaggi, polarizzazioni
Esattamente come nel cinema, che altro non è che uno specchio-prodotto della società, c’è chi coglie gli innumerevoli pregi e vantaggi, “deificando” le tecnologie digitali quali strumenti efficienti e potenti, tanto da essere irrinunciabili. Al polo diametralmente opposto c’è chi, invece, le demonizza, come se potessero essere la fonte di possibili patologie o quasi rappresentassero delle “tentazioni” rispetto a pratiche pericolose.
Poche persone, però, prima o dopo essersi schierate per l’una o per l’altra fazione, si prendono il tempo per riflettere. Ma è solo da una certa distanza che è possibile leggere i fenomeni in cui siamo immersi e riflettere sulla portata della radicale trasformazione che accompagna la digitalizzazione.
Se c’è qualcosa che, da psicologi e psicoterapeuti, possiamo incoraggiare, è proprio questo: fare e sollecitare spazio per la sospensione, per la pausa, per il pensiero. Decelerare. Assunti fondamentali della professione che potremmo facilmente dare per scontati nell’esercitare quotidianamente potrebbero invece essere utili e rivelatori se messi in condivisione con altri.
Ma cosa rispondere a un adolescente che ha l’urgenza di sapere se preoccuparsi o meno del fatto che il cellulare sia diventato così importante nell’economia della sua vita e che spesso si sente ripetere dagli adulti intorno che deve “disintossicarsi”, quasi si trattasse di un problema di dipendenza?
Uno sguardo clinico, ma non patologico, sul digitale
Se ci soffermiamo a riflettere su come spesso lo smartphone venga utilizzato come scacciapensieri o come “riempitivo” sin dalle prime ore del mattino, e non ci preoccupiamo di filtrare la nostra tendenza al giudizio, potremmo dedurre che esso sia davvero un oggetto di tentazione che distoglie da una potenziale produttività. Alzi la mano a chi non è mai capitato di perdersi a scrollare centinaia di post su qualche social network, non avendo percezione di ciò che stava facendo e intrattenendosi per un tempo a volte superiore a quanto ci si aspettava.
A un primo sguardo, questo comportamento di scrolling non sembra nascondere una grande “profondità” né avere una funzione che non sia meramente di intrattenimento; sembra che consenta di isolarsi in una dimensione propria, in cui la stimolazione visiva è costante e potenzialmente illimitata temporalmente. Per certi versi, potremmo anche leggerlo come un fenomeno dissociativo, come una modalità che permette di allontanarsi da qualcosa di angosciante o fastidioso, le cui radici potrebbero essere dentro di noi o fuori, nel contesto in cui siamo immersi.
Da che cosa cerchiamo di allontanarci?
Non è raro sentire adulti, fieri appartenenti alla generazione analogica, che interpretano in maniera estremamente negativa il fatto che le persone più giovani si intrattengano per lungo tempo al cellulare. Ed è ormai entrata nel copione dei grandi appuntamenti di famiglia annuali (la Vigilia di Natale, il Cenone di Capodanno etc.) la scena in cui tutte le persone invitate, a prescindere da chi sia presente nella stanza in quel momento, si trovano con lo smartphone in mano per mantenersi in contatto con chi è fisicamente distante.
Senza banalizzare, da un lato, e allarmare, dall’altro, è interessante domandarsi quando e come queste modalità messe in atto trasversalmente, a ogni livello sociale, ricoprano la funzione di arginare la difficoltà di mettersi in relazione con un mondo esterno spaventante o non sufficientemente interessante, oppure permettano di connettersi sia con chi è vicino che con chi non lo è, a volte attraverso soluzioni creative. Per esempio, è piuttosto diffuso tra i più giovani giocare in gruppo, ciascuno con il proprio device connesso agli altri, attraverso una modalità che è sostanzialmente aggregativa. Tutt’altra cosa rispetto alla tendenza dissociativa sopra descritta, che si pone in un senso esattamente opposto al flow, quella capacità di immergersi in un’attività con intenti costruttivi e non in chiave passiva – come avviene, invece, con lo scrolling.
Processi di conoscenza e meccanismi di difesa
Tornando alla domanda diretta e (un po’) destabilizzante del giovane paziente – “Che cosa ne pensi del mondo digitale?” -, rispondere schierandosi con l’una o con l’altra fazione non si rivelerebbe utile. La domanda è interessante perché, invece, potrebbe dare il via a un processo di conoscenza (e auto-conoscenza) che porta a interrogarsi, come singoli e come esseri sociali, sul perché ci si ritrovi, quasi senza accorgersene, a posizionarsi fermamente su uno dei due poli.
Per provare ad integrare, forse varrebbe la pena fermarsi a riflettere su quanto gli estremismi possano essere la risultante di un fenomeno di distorsione che operiamo sulla realtà quando non la conosciamo a sufficienza e, pertanto, cerchiamo modi per sentirla coerente con il nostro bagaglio esperienziale.
Facendo collegamenti interdisciplinari con la psicologia, possiamo pensare al nostro rapporto con il digitale attraverso i meccanismi di difesa, meccanismi psichici consci e inconsci, messi in atto da ciascuno di noi per proteggerci da situazioni ambientali, esistenziali e relazionali dolorose o potenzialmente pericolose.
Il digitale, “tutto bene” o “tutto male”: è la via della scissione, un meccanismo di difesa umano per cui si tende a organizzare l’esperienza reale associandola a valenze totalmente buone o, al contrario, totalmente cattive. Un modo di stare in relazione con il mondo che risale al periodo pre-verbale dello sviluppo di ciascuno di noi, ovvero quella fase in cui, in infanzia, non siamo ancora in grado di riconoscere che gli oggetti possono avere contemporaneamente caratteristiche buone e cattive, pregi e difetti. Un meccanismo che, forse più spesso di quanto pensiamo, persiste anche nelle nostre vite adulte.
È l’uso che ne facciamo a connotare la tecnologia: d’altro canto, anche un coltello può essere usato per ferire il prossimo, nonostante sia uno strumento essenziale per preparare e consumare agevolmente i nostri pasti.
A questo punto, proverei a fare un passo in più, interrogandomi su quanto le luci e le ombre che si suppongono essere caratteristiche intrinseche al mondo digitale non riflettano e amplifichino, in realtà, alcuni lati di noi stessi. Ma qui stiamo già parlando di un altro meccanismo con cui distorciamo il reale in maniera non sempre funzionale. Ciò che invece mi preme sottolineare è, piuttosto, l’importanza dell’essere consapevoli di questi meccanismi. D’altronde, questi sono proprio innescati dall’ignoto con cui ci confrontiamo quando ci chiediamo quale sia il rapporto dell’umano con il digitale.