A partire da un contributo della Dott.ssa Serena Vitulo
Ulisse è certamente una delle figure leggendarie a noi più note.
Offertoci in eredità dalla mitologia greca, può essere definito l’emblema dell’eroe errante, del viaggiatore per antonomasia. Per chi, come noi di Transiti, si interessa di temi quali il viaggio, rappresenta un riferimento ricco di sfaccettature e di spunti evocativi.
Uno fra tutti è quello che affonda le radici direttamente nell’archetipo del viaggiatore di junghiana memoria, offrendoci un modello primigenio di ciò che anima, orienta e agisce nella psiche di chi intraprende un viaggio – reale o metaforico – di scoperta e di crescita personale.
Il viaggio interiore
Il viaggio come esperienza interiore è stato in seguito proposto, nel campo della letteratura, da James Joyce. Proprio prendendo spunto dallo straordinario peregrinare di Ulisse nell’Odissea, l’autore conduce l’omonimo protagonista della sua opera (Ulisse, 1922) in un vero e proprio cammino introspettivo.
Dalla metafora del viaggio, oggi, trae spesso ispirazione chi si occupa di psicologia e psicoterapia, territori in cui il cammino di scoperta e di conoscenza di sé può essere ben rappresentato dalle vicissitudini, tanto biografiche quanto interiori, tipiche di ogni essere umano alle prese con le vicende della vita.
Prestandosi quindi a molteplici letture e declinazioni, l’immagine del viaggiatore errante e nostalgico ha costituito uno spunto e dato ispirazione a intellettuali e professionisti nel campo della letteratura, dell’arte, dell’antropologia, della psicologia, addirittura della medicina.
Lo spaesamento
In riferimento alle implicazioni relative all’esperienza di espatrio, si sente spesso parlare di Sindrome di Ulisse. Questo termine, coniato nel 2002 dal prof. Dr. Joseba Achotegui, porta con sé una critica sociale alla tratta dei migranti provenienti dal Mediterraneo e dalle rotte balcaniche in Europa. In questo senso, la Sindrome di Ulisse riconosce nella nostalgia, nella solitudine, nell’irrequietezza e nel disorientamento alcune delle specificità di una condizione di malessere che di frequente è sperimentata da chi si è trasferito in un paese diverso da quello delle proprie origini.
“[La sindrome di Ulisse ndr.] Si manifesta quando i problemi che i migranti vivono sono tanti, si moltiplicano e, in più, hanno una lunga durata. […] Come il Dr. Achotegui spiega, quando le condizioni sono così difficili da non poterle superare e la persona entra in una situazione di crisi permanente possiamo parlare della Sindrome di Ulisse.”
Proprio come l’eroe omerico, in perenne cammino interiore, le persone accomunate dall’esperienza di espatrio, e dunque alle prese con il travaglio dell’essere in viaggio, possono attraversare esperienze di spaesamento, questioni a carattere identitario, stati emotivi nostalgici che possono tuttavia permanere nel tempo.
Negli anni successivi, la Sindrome di Ulisse, nata più come metafora e denuncia di una condizione sociale e culturale che influisce sulla salute mentale e ne limita la sua tutela, ha assunto per persone differenti significati differenti, proprio come l’Odissea. Non è difficile, infatti, incontrare articoli che, attraverso travisate semplificazioni, accostano la sindrome di Ulisse allo stress post-rientro dalle vacanze. Allo stesso modo numerose persone in traiettorie di espatrio rivedono nella condizione evocativa di Ulisse una sorta di riscatto per la fatica di un percorso migratorio carico di avversità.
La tendenza a dare rilevanza ad una condizione umana, riconducendola al campo medico, è un fenomeno diffuso, come analizzato nel nostro articolo sulla natura della nostalgia, in cui abbiamo visto come, anche dal punto di vista linguistico, si tende a patologizzare il dolore e il sentimento nostalgico, stati psichici che sembrano essere legittimi solo se trasformati in disturbi.
La presenza di disorientamento, nostalgia, incertezza, solitudine, non sono sufficienti a giustificare l’utilizzo del termine sindrome, che in medicina indica un “complesso di sintomi, che possono essere provocati dalle cause più diverse.” Non si tratta infatti di sintomi in senso patologico, bensì di vissuti che fanno naturalmente parte del processo di espatrio e che normalmente emergono in alcune fasi di esso. Da tali vissuti, ma non in modo esclusivo, scaturiscono emozioni, pensieri, risposte comportamentali e interpretazioni della realtà che possono diventare segnali di una sofferenza psicologica profonda se interferiscono con la vita della persona che ne fa esperienza, compromettendone il benessere psicologico.
Essere consapevoli
La Sindrome di Ulisse quindi, oltre a non essere una patologia, rappresenta una condizione specifica di una migrazione che fa del trauma e delle difficoltà di affermazione in una cultura diversa da quella d’origine le proprie cifre caratteristiche. Tuttavia, nonostante la differente posizione sociale e provenienza culturale, possiamo affermare che i processi psicologici individuali che entrano in gioco nelle traiettorie di espatrio sono trasversali e trans-culturali. Chiunque può sentire dolore, sensazione di perdita, disorientamento, mancanza dei legami familiari e del contesto sociale, rabbia, disillusione, senso di realizzazione, gioia… tanto rispetto al proprio presente e al luogo in cui vive che rispetto al passato e al luogo da cui proviene.
Ciò che fa la differenza è, infatti, la possibilità di vivere tutte queste condizioni e di poterle riconoscere in se stessi, sapendo che finiranno o ci accompagneranno per lungo tempo ancora, che sono parte di noi o piccole esperienze che possiamo dimenticare. Che possiamo trarre conoscenza, benessere e salute da ciò che ci accade.
Adottando un approccio diverso, supportato dalle ricerche che si stanno sviluppando in questo ambito, può essere interessante leggere la nostalgia attraverso una prospettiva differente. C’è nostalgia e nostalgia. E ci sono differenti modalità di sentirla, viverla, reagirvi. Ciascuno ha la propria, di nostalgia, ma prima di considerarla nociva e invalidante tout court, vale la pena darsi la possibilità di vederla come una risorsa, un bagaglio che ci permette di tornare alle radici e darci forza per affrontare il presente.
Questa prospettiva permette di distanziarsi dalla visione un po’ sorpassata che, dai tempi di Hofer (medico svizzero che coniò il termine “nostalgia” per indicare una patologia medica), la relega a una condizione di sofferenza irrisolvibile, aprendo a un campo semantico negativo, dai toni spenti, opachi, piatti. La nostalgia è, invece, ricca di molte sfumature soggettive.
Sebbene non si tratti di una sindrome, non c’è motivo di non dedicare comunque attenzione ai movimenti interiori e ai processi che, come la nostalgia, accompagnano i nostri spostamenti fisici e geografici. In tutte le circostanze, la consapevolezza ha una funzione fondamentale: è una risorsa preziosa che può essere coltivata attraverso un percorso con un/una professionista, utile per affrontare problematiche specifiche, esperienze di fatica o confusione e per orientare il proprio progetto di vita.