Rientrando faccio sempre la stessa strada, quella che collega casa alla stazione dei treni. Non c’è mai molto trambusto, è una strada poco trafficata, semideserta, di quelle in cui ci si infila la sera per parcheggiare con una certa dose di sfida verso qualunque altro veicolo. Si parcheggia e, rapidamente, dalla portiera dell’auto, si passa a quello del palazzo di casa.
Ma ora qualcosa è cambiato
Da qualche tempo, però, è scomparsa una delle corsie di marcia. Prima era a doppio senso per le auto, mentre ora una delle due corsie è stata tratteggiata con delle linee colorate e figure stilizzate di omini a passeggio. Questo piccolo cambiamento, apparentemente semplice, ha modificato non solo il traffico ma anche il modo in cui le persone si muovono, si incontrano e vivono il loro ambiente quotidiano. Anche io ho iniziato ad abitare quella zona in modo diverso e una via che prima era solo di passaggio è diventata uno spazio nuovo. Notare quel cambiamento mi ha permesso di vedere cose che fino ad allora mi erano sfuggite.
Per esempio, un pomeriggio ho visto per la prima volta, nonostante fosse lì da anni, un bar all’angolo. Ho deciso di sedermi al tavolino esterno e ho iniziato a guardarmi attorno. C’erano molto meno auto rispetto a prima, e così ho avuto l’opportunità osservare con più attenzione chi passava: una signora di fretta, due papà con i passeggini, ciclisti con equipaggiamenti più o meno tecnici, monopattini spinti da persone piccole e altri da motori elettrici. C’era un bel sole. Ho iniziato a tornarci spesso, in quel plateatico, a prendere “il solito” e a fantasticare su chissà quale nuovo volto sarebbe passato di lì a poco sull’asfalto ombreggiato.
Qualche linea sull’asfalto, una piccola cosa nuova che però ha cambiato l’atmosfera dell’intera strada, il modo di viverla e di guardarla e ha fatto stare meglio anche me.
Cambiare è un processo condiviso
Nella vita, i cambiamenti non avvengono mai come eventi isolati. Quando affrontiamo una trasformazione lo facciamo in contesti dove spesso sta succedendo anche molto altro. Ogni volta che affrontiamo sfide evolutive, ci trasformiamo, ci adattiamo, rifiutiamo e integriamo nuove parti di noi. Ma non siamo i soli a cambiare, lo stesso destino spetta anche alle altre persone e al contesto attorno, ed è così che la nostra rete sociale si trasforma insieme a noi.
Ma cosa accade quando il nostro cambiamento implica uno spostamento geografico, quando ce ne andiamo, quando espatriamo?
Partire significa anche arrivare
Le relazioni per noi importanti, che fino a quel momento erano lì, a pochi passi, si trovano improvvisamente a una certa distanza. Una distanza non solo misurabile in chilometri, ma fatta anche di esperienze e culture diverse, abitudini e visioni che cambiano. Entrando in un nuovo contesto, così lontano da quella che chiamavamo casa, anche noi potremmo sentirci distanti da chi eravamo prima. Potrebbe anche succedere che, almeno per un po’, l’obiettivo che ci ha spinto alla mobilità occupi, nel quotidiano, tutto lo spazio nei nostri pensieri.
Non ce ne stiamo solo andando, in effetti. Stiamo anche arrivando in un luogo nuovo che potrebbe far venire voglia di resistere oppure di lasciarsi andare completamente e abbandonare chi si era.
Qualunque sia la direzione in cui ci muove questa spinta, ci parla di un “io” che era e che ora dev’essere qualcos’altro. Ma non sempre il cambiamento è così lineare, e l’energia necessaria per affrontarlo può essere tanta. Così tanta da farci dimenticare la nostra capacità di mantenere legami e costruirne di nuovi, di mantenere la compatibilità tra chi eravamo e chi stiamo diventando.
Non siamo mai soli in questo cambiamento. Quando partiamo, portiamo con noi non solo cose materiali ma anche qualcosa di intangibile: relazioni, immaginari, appartenenze. Nemmeno queste parti scompaiono. Spesso restano, ma vanno rintracciate, riscoperte e comprese per come sono diventate…
Solitudine e collettività
In un nuovo contesto, quando tutto intorno cambia, possiamo comunque costruire qualcosa che ci faccia sentire ancora “parte”. Appartenenze nuove, ma affini, che creano quel ponte tra ciò che eravamo e ciò che stiamo diventando. Esperienze che, anche se diverse, ci riconnettono a un senso collettivo.
Così com’è successo a Greta. “Mi sono trasferita a Lilles e avevo un ragazzo che dovevo sempre visitare in Italia. In più, i primi tre anni che stavo lì, mia madre e mia sorella vivevano a Parigi. Per motivi diversi, tutte e due lavoravano lì e quindi le vedevo spesso. Anche se mi faceva piacere, questi sono stati i tre anni più difficili, in cui tentavo di ambientarmi ma faticavo a trovare il mio spazio. Dopo qualche anno ho chiuso con il mio ragazzo e mi sono trovata costretta a vivere la città, accorgendomi che in realtà mi piaceva molto: anche se di fatto lo ero, non mi sono mai sentita veramente sola.
A parte il lavoro, il posto in cui sono è un ambiente super internazionale, ci sono molte persone straniere e che quindi sento nella mia stessa condizione. Ci sono, ad esempio, una mia collega spagnola, una collega greca e in passato c’era una ragazza americana, poi ho conosciuto un sacco di italiani qui. Anche loro sono in una nuova città, senza amici, e a un certo punto diventa normale fare cose insieme. Anche se non tutti gli italiani all’estero mi piacciono [ride], ce ne sono alcuni che mi sono simpatici e che sono diventati miei amici, diciamo la mia famiglia qua.
In italia mi muovevo spesso in bici e quindi ho provato a farlo anche qua. Una volta quindi ho partecipato a questa gita in bicicletta pensata per conoscere nuove persone e per esplorare la città, tramite loro poi ho conosciuto altre persone che conoscono altre persone e così via. Così ho incontrato il mio attuale partner.”
Poterci pensare come parte di qualcosa ci aiuta a uscire da quel senso di solitudine e disorientamento che si può incontrare durante un’esperienza all’estero. Sentirsi parte non significa solo appartenere a un luogo o a una cultura, ma anche riconoscersi in una rete di relazioni, più o meno distanti.
Come delle bolle che si avvicinano e si allontanano nel tempo, alcune relazioni sono più piccole e passeggere, ma ci toccano da vicino, altre sembrano più distanti ma più grandi e costanti nel tempo. Non è detto che una relazione “lontana” non possa avere un’influenza profonda, o che un contesto poco familiare non diventi, con il tempo, un nuovo punto di riferimento. Queste sfere di influenza non sono fisse e cambiano con noi.
E in questo sistema di scambi non siamo solo destinatari: possiamo anche essere risorsa per altre persone. Non si tratta solo di ricevere e dare supporto, ma sentirsi parte di un sistema più ampio. La sfida sta nel vedere anche al di fuori dai ruoli in cui siamo soliti pensarci: non solo genitori, partner, figli e figlie, ma anche come membri di più gruppi per noi significativi e con cui si condividono passioni e valori – studenti, cittadine, volontarie, expat. Questa molteplicità di appartenenze ci aiuta a non sentirci ridotti a un solo ruolo, ci permette di esplorare più parti di noi, di essere risorsa e chiedere sostegno. Quando ci percepiamo come parte attiva di una rete, anche piccola, ci sentiamo più legittimati nel chiedere aiuto, perché sappiamo di avere qualcosa da offrire.
Non è necessario sentirsi parte di una cultura per sentirsi parte di qualcosa.
Le relazioni non nascono solo dentro le comunità organizzate, ma soprattutto nei contesti quotidiani, nella condivisione di esperienze tra le persone. Ed è lì che possiamo ritrovare un senso di connessione e di concreta condivisione, con la comunità, non solo in senso lato, ma come esperienza di relazione.