Primi passi di mobilità internazionale: scoprirsi in un contesto d’espatrio

Transiti, in collaborazione con il Polo del 900 di Torino, ha organizzato un ciclo di quattro incontri sul tema del benessere psicologico in mobilità, per sensibilizzare e preparare alla partenza studentesse e studenti Erasmus.

“Che sia nel bene o nel male, il cambiamento ci porta a rivalutare chi siamo e chi diventeremo […]. Cambiano i modi in cui gli altri ci vedono e si relazionano con noi. Di conseguenza, spesso si trasforma la nostra identità personale e sociale, portandoci a ridefinirci in modi nuovi” (Haslam et al., 2021, p. 636)

Quello dell’identità sociale è uno dei temi al centro della psicologia sociale. Studia come le nostre interazioni e appartenenze influenzano profondamente la nostra visione del mondo e del nostro posto in esso.

Si tratta di un argomento rilevante, con profonde conseguenze per il benessere e la gestione delle nostre comunità e società. Per questo motivo, è stata dedicata una conferenza internazionale che ha coinvolto ricercatori del settore. La sesta edizione dell’International Conference on Social Identity and Health è stata ospitata dall’Università di Limerick, in Irlanda, e quest’anno ho partecipato anche io.

Per me è stata una collezione di prime volte: la prima conferenza internazionale, il primo viaggio che non fosse una vacanza, il primo volo senza la compagnia di amici, la prima volta da non-più-studentessa-universitaria.

La prima vera volta da expat? Posso definirmi così?

Il benessere psicologico in espatrio: dalla ricerca all’esperienza di mobilità 

Circa un anno fa ho iniziato ad approfondire le tematiche legate al benessere e alle traiettorie di espatrio. Per scrivere la mia tesi magistrale in psicologia mi sono unita al gruppo “Verso il benessere psicologico in espatrio scientifico“, un progetto pilota di Transiti Psicologia d’Espatrio e Oceanitalians. L’obiettivo era indagare più a fondo le esperienze di chi affronta una carriera di ricerca scientifica in mobilità internazionale.

Dopo un anno, partendo e portando il lavoro di ricerca della mia tesi a un convegno all’estero, mi sono trovata a vivere un’esperienza non così lontana da quelle raccontate dai partecipanti al progetto.

Nella tesi ho scritto molto riguardo all’identità sociale e alle esperienze di espatrio, ma è stato solo quando sono partita per Limerick che ho davvero iniziato a comprenderne appieno la complessità.

La mia è stata un’esperienza breve, circoscritta, non ho dovuto rivoluzionare la mia vita quotidiana. Eppure, in quel momento mi sono interrogata su diverse questioni. Non solo mi sarei trovata in un contesto totalmente nuovo, ma avrei dovuto interagire con professionisti e professioniste provenienti da tutto il mondo, ciascuno con la sua carriera alle spalle, il proprio background culturale e la propria visione delle cose. Come mi avrebbero percepito? E come avrei a mia volta inquadrato me stesso in quel nuovo scenario?

Ogni giorno, in molteplici situazioni, mettiamo in atto processi attraverso i quali classifichiamo noi stessi e gli altri in base alle caratteristiche più varie, come il genere, l’età, l’etnia, la nazione di provenienza, l’occupazione o gli interessi. Queste categorie diventano parte integrante dell’immagine che abbiamo di noi stessi e di ciò che siamo.

Osservare come i partecipanti del convegno si raggruppavano e si presentavano a vicenda mi ha fatto notare quanto la nostra appartenenza a determinati gruppi sociali plasmi in modo profondo la nostra identità. Le nostre origini, le nostre affiliazioni, perfino il nostro modo di vestire e di parlare diventano segnali concreti di chi siamo e a quali categorie riteniamo di appartenere.

Rimane sorprendente il modo in cui i nostri gruppi di appartenenza diventino non solo simbolo di chi siamo, ma un’àncora a cui aggrapparci nei momenti di difficoltà o di incertezza. Le reti sociali che ciascuno costruisce nel tempo possono avere un ruolo cruciale, oppure semplicemente fornire quel piccolo sostegno in videochiamata quando arrivi stanca alle nove di sera e scopri che tutti i locali della zona sono chiusi ormai da un’ora.

Trovare la teoria nella quotidianità

Qualche tempo fa, durante una vacanza all’estero, ricordo che dissi a una mia amica “non mi sento mai così tanto italiana come quando vado fuori dall’Italia”. In quel momento si trattava di un commento simpatico, una battuta. Eppure, mi sono trovata a ripensarci spesso durante il soggiorno a Limerick.

Il modo in cui il volto della gente si illuminava quando dicevo che ero italiana, pronta a chiedermi da quale parte del Paese venissi, e l’educata delusione quando scopriva che venivo da una città del Nord e non dal bel borgo del Sud che avevano visitato durante qualche vacanza; il leggero imbarazzo con cui ci parlavamo in inglese tra italiani di fronte a colleghi e colleghe stranieri; l’orgoglio con cui la cameriera italiana del locale in cui facevamo colazione, che mi ha subito individuata quando le ho chiesto dove potevo trovare le posate, e la gentilezza con cui mi ha chiesto sottovoce se volessi un “cappuccino ben fatto” fuori menù. 

Piccole cose, sufficienti a farmi riflettere su quanto chiaramente potessi trovare la teoria nella mia esperienza lontana da casa. 

Trovarmi in un contesto come quello è stato come fare i conti con alcune delle mie paure e vulnerabilità: era un ambiente per me nuovo e stimolante, e sentivo di volerne far parte portando un pezzo di me. In quei giorni ho scoperto che, in parte, avevo già trovato la risposta nelle ricerche e negli interventi che avevo ascoltato durante la conferenza. 

Per me si trattava di un momento di trasformazione: da studentessa universitaria a qualcosa di nuovo, anche se ancora in fase di costruzione. In un momento così in bilico ti rendi conto di quanto sia forte la voglia di creare nuove connessioni, e quanto affidamento si possa fare sulla rete sociale che costruisci ogni giorno intorno a te, un mattoncino per volta. Così, ritrovavo le parole delle persone coinvolte nel progetto: i nostri legami sono come un materasso morbido pronto ad attutire la caduta in momenti di fragilità. Allo stesso tempo, sta a noi utilizzare quelle molle come un trampolino per raggiungere un punto diverso, ancora inesplorato.

Chi sono? Definirsi e ridefinirsi

Spesso, quando veniamo a contatto con il diverso, sentiamo il bisogno di marcare in modo più netto i confini del nostro gruppo, quasi a volerci rassicurare sulla nostra collocazione all’interno di una categoria sociale ben definita. 

Nell’ultimo anno, approfondendo l’argomento, ho potuto notare la duplice portata di un meccanismo psicologico come questo. Se, da un lato, può portare a un maggior senso di appartenenza e continuità, dall’altro può sembrare limitante se non, in alcuni casi, controproducente.

Nonostante ciò, i contributi presentati durante la conferenza hanno messo chiaramente in evidenza quanto sia importante ricordarci che noi non siamo “una cosa sola”. 

La nostra identità è una costellazione composta da tante parti che ci rendono quello che siamo. Possiamo essere contemporaneamente figlie e madri, studentesse e insegnanti, italiani e stranieri, ricercatori professionisti e genitori alle prime armi. 

Ciascuno dei gruppi a cui sentiamo di appartenere contribuisce a ciò che siamo e ci aiuta a mantenere continuità con il passato e costruire nuovi legami con chi sentiamo affine, sia che si tratti di relazioni profonde o piccole e temporanee interazioni. È il motivo per cui tutti noi partecipanti al convegno giravamo per il campus con al collo una targhetta con il nostro nome e l’università di appartenenza, ma anche il logo della conferenza. Quella stessa targhetta che ci ha permesso di riconoscerci con tre di noi alla fermata del bus che ci avrebbe riportato all’aeroporto di Dublino, a farci compagnia durante la lunga attesa e aiutarci a prendere la giusta coincidenza, a lasciarci con un abbraccio e un augurio per il futuro. In quel momento stavamo condividendo qualcosa di un po’ più profondo dello stesso autobus.

Muovendomi, mi scopro 

Un po’ come tutte le altre persone sono partita con aspettative, fantasie, desideri e paure. Alcune di queste sono cambiate nel corso del viaggio, altre sono sparite, altre ancora si sono aggiunte. Ripensandoci, a distanza di qualche settimana, ritengo che l’esperienza più interessante sia stata quella di scoprire non solo un luogo e un contesto nuovo, ma quella che mi ha portato a conoscere delle parti di me con cui ancora non avevo avuto a che fare da così vicino. 

È un vero e proprio lavoro che ci chiede di rimettere in discussione chi siamo e come percepiamo le persone e il mondo intorno a noi, di mettere insieme chi eravamo e chi vorremmo essere, di trovare un modo nuovo e coerente per immaginarci in qualcosa di diverso.